Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIV edizione - Arcade, 5 gennaio 2009

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Terzo classificato

IN MONTAGNA NON SI MUORE

 

di Rita Mazzon

Padova


Non so perché non l’avesse mai raccontato. Ci sono certi eventi della vita che si ricacciano
giù in fondo, perché ogni volta che vengono a galla, lacerano il petto. Sono tatuaggi che
hanno perforato il cuore e non si possono più cancellare.
Eppure quegli occhi troppo azzurri, segnati intorno da rughe fitte, dovevano in qualche modo
farmi intuire. Io niente. Un marito, due figli. Avevo ben altro cui pensare.
In fin dei conti l’andavo spesso a trovare. Anche se mi costava fatica. Anche se abitava in quel
paese abbandonato dagli uomini e forse anche da Dio. Per lei doveva essere una impresa ardua persino raggiungere la chiesa. La strada era in salita. La scalinata mal ridotta si rinverdiva d’estate di gramigna e si sbiancava in inverno con una lastra spessa di ghiaccio.
“Nonna, non andare in chiesa. Prega a casa. La strada è faticosa. Puoi scivolare!”.
La mia telefonata rimaneva in sospeso. Poi lei, incurante delle m ie raccomandazioni, mi rispondeva:“Quand’è che mi vieni a trovare? Mi farebbe piacere vedere te ed i bambini. Non posso stare tanto al telefono. Devo andare in chiesa. Ciao!”. Metteva giù il telefono ed io alzavo gli occhi al cielo “Benedetta donna - pensavo - fa sempre il rovescio di quello che le dici.”.
D’estate si andava da lei.
La grande casa sembrava essersi seduta sulla roccia e mostrava impettita la sua facciata. Era bianca con la porta e le imposte rosse, quasi a contrapporsi con la tinta nitida dei muri all’asperità di quel monte sempre cupo che la circondava. Sfrontata, spavalda, la notavi già da lontano. Un punto, una luce arrampicata sulla montagna. Poi mano a mano che la strada si rimpiccioliva, ecco che ti avvolgeva con il giardino ed i suoi quattro abeti, fedeli sentinelle, custodi delle mura antiche.
Là viveva mia nonna.
“Venite! Mettete giù le valige! Fate i signori! Questa è anche la vostra casa!”.
I bambini correvano, cercando di acchiappare i gatti della bisnonna. Io tappezzavo con le mie sgridate quelle pareti scrostate, silenziose fino ad un momento prima.
“Nonna ci stai bene qui? Vivi in questa grande casa, completamente sola”.
Lei si avvicinava al grande comò di noce. Guardava una foto in bianco e nero contornata da una
cornice di radica.
“No! Non sono sola. Sono con la tua mamma!”.
Mamma in quella foto era bella, giovane, bionda. Aveva gli occhi azzurri materni. Portava un vestitino scuro che le copriva le ginocchia. Un collettone bianco di pizzo metteva in risalto lo sguardo pulito di una ragazza semplice, nata lassù tra i monti.
Io la ricordavo appena. Avevo otto anni, quando era successo tutto ed io ero rimasta con niente. Anzi con una nonna persa in un paese di montagna.
Un incidente in auto. Morti i genitori. Una bambina orfana con una nonna.
Mi piaceva tornare da lei, perché mi sembrava di sentire la voce dei miei. Ascoltavo le sue storie raccontate a bassa voce, quasi avesse paura di risvegliare qualcuno dall’oblio.
Sebbene le avessi sentite tante volte, le chiedevo: “Ancora. Un’altra volta ancora… Quella in cui
la mamma si è presa la pioggia… Raccontami del suo primo bacio con papà… Ancora…”.
Si srotolavano le giornate tra i ricordi, le camminate con mio marito e i figli nei boschi, per ritrovare la serenità e ritemprarci con l’aria pura.
La montagna apriva le sue braccia, ci dava il suo tepore. Noi ci lasciavamo andare dentro il suo
silenzio che per quindici giorni ci apparteneva.
Quel giorno ero nella sua camera da letto. La guardavo, ma non riuscivo a capirla. Anzi frapponevo tra i suoi discorsi e la mia testa un baratro.
“Non ci credo! Non ti voglio più ascoltare!”.
Lei mi aveva parlato, girandomi le spalle. La vergogna in tarlo aveva corroso la sua vita. Il suo orgoglio da troppo tempo si era arreso.
In piedi, osservava dalla finestra qualcosa. La sua testa era alta. La schiena dritta.
Lei non aveva paura. Io sì. Io tremavo.
I fantasmi giravano in un mulinello intorno. I fantasmi però non hanno la realtà addosso.
Continuavo a ripeterlo. Non possono fare del male. Sono morti con l’odore di una guerra infame che si portano dentro.
Ero andata da lei per avere un aiuto. Ora lei mi scaraventava addosso una verità tremenda.
Aveva detto che l’aveva fatto per me. Che, dopo le mie parole, non poteva stare più zitta.
Con mio marito non andavo molto d’accordo. I due bambini mi riempivano la testa di problemi.
Non mi sentivo all’altezza. Marco andava male a scuola. Piero si era fratturato il piede. Non stava mai fermo. Non ce la facevo proprio… Mi ero scusata con lei di essermi lasciata andare. Perché mi aveva raccontato quella vecchia storia?È vero che, dopo le mie lamentose grane quotidiane, le avevo spiaccicato in faccia: “Nonna sono incinta. Io però abortisco. Io questo figlio non lo voglio!”. Lei, all’inizio aveva sorriso, con una increspatura sottile che le aveva illuminato gli occhi. Poi sentendo la storia dell’aborto, il viso si era oscurato. “Tu sei pazza!”.
L’aveva detto tra i denti, come una frana sorda si stacca e va a frantumarsi in un canalone cupo.
“Tu sei pazza!”. Lo ha ripetuto più volte, in cantilena.“Non ce la faccio nonna ad avere un terzo figlio. Paolo è sempre via per lavoro. Quando torna è stanco. Si arrabbia per un nonnulla. Io sono sola.”. Mi sono messa a piangere. Allora lei ha sospeso per un attimo la sua nenia. È rimasta in silenzio, non so per quanto.
Si è alzata in piedi. E’ andata verso quella finestra, come per cercare qualcuno che era partito un tempo lontano.
Aveva cominciato il suo racconto. Un monologo sussurrato a se stessa. La sentivo a mala pena.
“Avevo tredici anni. Portavo i calzettoni di lana. La gonna corta a fiori con il golfino
nero.
Faceva freddo qui in montagna. C’era la guerra. C’erano i partigiani nascosti su nel
covo della Cima. C’erano i tedeschi che davano loro la caccia.

Ero nella stalla quel giorno a mungere le vacche. Ce n’erano rimaste due sole. Latte, burro, formaggio. Eravamo fortunati noi in montagna. In montagna non si muore. Se hai il campo di patate e le mucche. Non si muore. La montagna ti protegge. Ti dà la legna, un prato verde per le vacche. Non si muore. Io ascoltavo. Volevo intervenire. Che m’importava della sua vita che già conoscevo. Perché la raccontava, proprio adesso?
Io avevo quel “problema” dentro il mio ventre. La mia guerra avevo d’affrontare. Non quella sua
morta e sepolta. Ora lei era in pace. Lei continuava imperterrita. Non dava peso ai miei borbottii indistinti. In montagna si sta bene. Hai la tua casa, il camino. Non si muore…
Quel giorno in stalla si fece tutto buio. Freddo. Fu un attimo. La morte mi sfiorò, tremenda.
Fuori nevicava. Avevo preso il secchio. Lo stavo riempiendo. La Bettina era docile con me, si lasciava mungere piano. Bianca la neve. Bianco il latte. La porta si aprì dietro le mie spalle. La stalla si fece nera. Entrarono, gridando.
Mi presero per un braccio. Mi scrollarono, sputandomi addosso la loro lingua cruda, odiosa.
Erano tedeschi con la giubba scura. Perquisirono la stalla. Forarono con le punte dei fucili il fieno. Cercavano i partigiani. Loro però erano al sicuro. Niente. Nessuno. Io ero sola.
Io stavo bene in montagna. Bevevo latte. Avevo le guance rosse. Mi guardarono attentamente. Mi esaminarono. Io abbassai il capo. Parole rabbiose, miste a risa. Delle mani mi presero. Mi sbatterono per terra. Occhi iniettati di voglie, di odio. Capelli biondi sudati… Male. Scuro.
Vergogna… Vuoto… Il nulla”.
“Ma che è successo, nonna? Perché mi racconti questa storia?”. Mi sono alzata per sentire meglio. Ero atterrita. Volevo starle vicina. Mi faceva pena quella vecchia donna, che si schiariva la voce per farla emergere dalla gola. Un dolore atroce le stava uscendo di getto, raschiato nella grotta profonda del suo animo. Lei era rimasta in sospeso, come per ritrovarsi dopo una fuga in luogo sicuro. Poi la sua fronte corrucciata, sudata si è distesa.
Che è successo? Dopo nove mesi è nata tua mamma. Che dovevo fare io? Abortire? Dimmi che dovevo? La cosa più bella che mi sia capitata al mondo. Capisci? Una figlia!
Non mi interessava allora chi fosse il padre. Vedevo crescere la pancia. Serbavo per me sola questo segreto. Per me sola.
Ai miei non ho detto niente. Non avrebbero compreso. Mi avrebbero portato da zia Pina. Io lo sapevo che lei rubava i figli dal grembo delle madri. Li uccideva! Io non volevo.
Quando sono arrivata agli ultimi mesi, ho detto che avevo incontrato un partigiano. Avevamo fatto all’amore e poi lui era stato ucciso.
Mio padre mi diede due ceffoni. Era però troppo tardi per sconfiggere il disonore.
Tu mi parli di uccidere? Di far morire il tuo bambino? Perché?”
Tu con un marito, una famiglia che ti vuole bene. Perché?
Io sono rimasta esterrefatta, muta. Poi mi sono ripresa.
“Non è vero! Mia Madre? Non può essere. Sei cattiva. Il nonno è un partigiano!”.
Lei si è voltata. Mi ha guardato dentro gli occhi. Ha scavato la mia anima.
“La vita è crudele! La vita è splendida!”. Ha sussurrato, prendendo tra le mani la foto della
mamma, accarezzandola piano, piano.
Mi sono avvicinata a lei e l’ho baciata. La pelle dolce della sua guancia sapeva di lacrime amare.È stato l’ultimo giorno che l’ho vista.
I quattro abeti fanno ancora da sentinella alla bianca casa.
La bimba gioca nel giardino. Si chiama Vera. Il nome dolce e amaro della sua bisnonna.