Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIV^ edizione - Arcade, 5 gennaio 2009

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Primo classificato

IL VENTRE DELLA MONTAGNA

 

di Enrico Brambilla

Biassono (MI)

Quanta bellezza svanita nel nulla!... Di quel volto, fronte vergine come una pietra di ghiaccio, non restava che una foto in bianconero, la filigrana lisa dalle troppe volte che la carezza del dito aveva percorso tremante la tenue pelle di carta lucida.

Ancora tentò, Martina, e l’indice, il dito nodoso deformato dall’artrite, scorse sul volto impresso del marito, il volto giovane che la rimirava assorto da un rettangolo di nebbia.O forse era neve quella grisaglia patinata, neve d’un inverno lontano fermata per sempre nello scatto d’un fotografo, metà ciarlatano di chiacchiere roboanti e metà stregone con quegli avvampi di fulminato, che aveva così impressi come per magia i due ritratti: uno per lui, di lei che restava in abito da sposa; uno per lei, di lui che partiva in tuta da minatore. La semina dei passi...

Dalla finestra Martina aspettava, l’inverno stava disteso sul campo in stupito silenzio, che la neve infine cadesse sui suoi tanti anni fermi, sul sentiero che da casa si allontanava e che, come allora, avrebbe portato impresse nel soffice candore le impronte d’un angelo sorpreso per via con l’ali grevi di neve.

Sorrise, Martina, al vetro della finestra, sorrise alla morgana che nella lastra accendeva immagini antiche, sorrise mesta a se stessa che, nel bianco abito indossato per un solo giorno, appariva diafana, di neve appunto, una traccia d’intensa beltà a segnarle il viso che l’amore certo incendiava. L’incendio di quel giorno quando, innanzi al prete, il suo era stato un “sì” di lacrime, gli occhi rivolti al rosone dell’abside oltre cui, sulle montagne lontane, il buio antro della miniera di carbone reclamava l’opera del piccone e la miccia corta della mina. Pochi baci, dopo la cerimonia, carezze frettolose, un imbarazzo straniante del suo Angelo, così si chiamava il marito, in preda alla frenesia di andare, le mani vuote che, chiudendosi e riaprendosi a scatti nella tristezza del saluto, parevano cogliere nell’aria le preziose gemme nascoste nelle viscere del monte. Martina era rimasta così, sgomenta, come un fiore gualcito da un passo distratto, dietro la finestra a rimirare la semina d’impronte allontanarsi nella neve, nell’orecchio l’eco triste di parole appena sussurrate dal sapore di promessa e nello stesso tempo velata scusa di chi forse presentiva che non sarebbe stato capace di mantenerla.

Una promessa balba, sconfortata, di quarant’anni prima, di chi le aveva recato in dono nuziale null’altro che un pugno di povertà, una promessa che ancora sentiva echeggiare nell’intimo ora che gli anni erano finiti ma la speranza, ostinata, perdurava illudendo. - Aspettami...- aveva detto lo sposo prima d’avviarsi infilando nello sparato della giubba la sua foto -...Aspettami fiduciosa e vedrai che un giorno tornerò, un giorno queste nostre foto si sorrideranno da due cornici d’argento e per te...- le carezzava il palmo aperto della mano

come a deporvi qualcosa -...e per te ruberò alle viscere del monte la pietra più preziosa, magari un rubino, uno smeraldo o un diamante...- L’argento era fiorito sui suoi capelli, s’era cristallizzato nei suoi occhi che una cataratta annebbiava, s’era inciso nella sua memoria ostinata che, oltre la finestra, oltre gli anni, oltre l’attesa continuava a sperare una semina di passi nella neve questa volta rivolti nella sua direzione.

Passò la mano sulla fronte, Martina sospirò e, l’immobilità dell’attesa le aveva intorpidite le membra, si distolse a malincuore dallo stallo di vedetta. Le occorrevano quei due passi strascicati per la stanza, le era necessario sentire il sangue rifluire negli arti, le occorreva ritrovarsi nel cubo d’aria in cui viveva e toccare, per farsi certa delle piccole cose che avevano riempito i suoi giorni, gli oggetti sparsi tra merletti e spighi di lavanda. A palme larghe carezzava il letto, dunque, su cui la coperta crochet tramava per ogni nodo i tramonti

degli anni spenti nei fumi larghi sopra i camini. Schiudeva il segreto dei cassettoni, aperti a fatica per il legno vecchio che scorreva come una carezza ruvida, in cui i giorni erano riposti quieti tra i lini, le ore candeggiate con la liscivia e strosciate sulla pietra del torrente.

Toccava con un dito le grucce degli armadi ed i vestiti appesi, flosce membra di stoffa che un alito d’aria rimpolpava per un attimo, parevano una gavottina di damigelle che circuissero il suo abito da sposa, il piqué superbo imbustato nella protezione del cellophane. Levava la boule de neige dal peperino del comò, l’agitava ancora stupita per quel vortice di tormenta che avvolgeva una Lilliput di guglie e rosoni arabescati, e toccava e riponeva sempre allo stesso posto la biscuit dagli occhi azzurri vinta ad un baraccone di fiera, la gondolina d’alpacca regalatale da chissà quale amica di ritorno da un viaggio a Venezia, lucidava col lembo della manica l’albarella in caolino che racchiudeva scorze profumate, tastava tutto, ritrovava tutto, uno per uno gli anni trascorsi nel perdurare dell’attesa.

Attesa che era evidente, non osava neppure rimuoverne la polvere con lo spolverino di piume, nel riquadro delle due cornicette d’argento annerite riposte sul comodino, il cartoncino di fondo viola a cui soltanto l’incasellatura di due foto avrebbe potuto togliere, ricoprendolo, quel colore di lutto.

Mai il lutto, mai un’apparenza d’intristita attesa...Neppure quando il decoro della vecchiaia avrebbe richiesto una più consona modestia, Martina s’era negata un vezzo giovanile, una civetteria che nell’abbigliamento forse straniava in contrasto con la severità delle vesti dimesse ma che le permetteva l’illusione d’un perdurare di gioventù cui il lutto certo non addiceva. Perciò il foulard di seta al collo annodato con sbuffi vaporosi o il granato degli orecchini o la sardonice miniata appesa alla catenina o, ed in verità era motivo d’altrui sarcasmo la civettuola indulgenza, il filo di rossetto alle labbra e la terra spalmata a far colorite le guance e il rimmel intenso a contornare due grandi occhi innamorati.

No! La sua doveva essere un’attesa di sposa e non di funerea vedova...Quell’autunno d’ombre lunghe sotto le siepi dove il silenzio nebbioso ammassava strame di foglie dorate calò dal monte sulle schiene curve d’altri minatori che, su una spalla il fardello d’un sacco di carbone e sull’altra la stanchezza del mondo, evitavano di guardarla negli occhi mentre, parlando piano, le sussurravano con un fiato di fuliggine:

- La mina, il grisù... C’è stato uno scoppio, Martina, la montagna è franata...- e poi andavano pesanti, in bocca trattenuto il nome dei compagni rimasti per sempre lassù a grattare col piccone la pancia della montagna. Per giorni Martina, seduta alla finestra, aveva guardato attonita il profilo del monte,

per anni aveva minuziosamente centimetrato aguzzando la vista canaloni, falesie, cenge, alti nevai che un saracco mordeva, faggeti al monte risalenti incappucciati di bigio come un corteo di funerei monaci.

Poi, per stagioni, calava la vista sempre più fioca alla svolta del sentiero lì davanti da cui, una promessa è debito e nulla vale a non mantenervi fede, doveva prima o poi apparire un angelo con l’ali grevi di neve.

Orme nella neve, ad ogni inverno che scadeva, passi che, pur senza la chiarità della visione, Martina riconosceva esatta per lo scricchiolio e sapeva che il postino cadenzava forte col piede sinistro per supporto al sostegno della borsa di cuoio sulla spalla e il curato, rogazione dei campi, che il passo ritmava alle litanie che borbottava e pareva esalare un’anima di vapore dalle narici dilatate e la camminata franosa del legnaiolo di frodo che menava la roncola nel botro e i colpi rassegnavano attutiti nella complicità della neve.

- Sarà domani...- rassegnava allora Martina, spegnendo del tutto la poca luce degli occhi, addormentando l’udito in cui, vivida traccia sonora rubata alla dimenticanza del tempo, si scioglieva la camminata

giovane e decisa d’un angelo sorpreso in volo con l’ali grevi di neve. La tonaca del curato, un pretino giovane che aveva sostituito il vecchio parroco risalito al monte dei santi, svolazzava nell’occhio spento di Martina come la telaccia del mugnaio in cui gli stari di farina nevicavano. Veniva dal fondo, i passi ratti e leggeri come quelli della volpe timorosa, il pretino pallido che alla porta della donna bussava e restava ritto a capo chino, mercante di neve novella che in mano recava le brine di fine anno.

Stagliata contro la luce, Martina s’era sporta tendendo mani tremule che racchiudevano forse il dono della piccola luna o le stelle vividamente dure o semplicemente parole quiete che avevano sentore d’incenso e fumigo di candela: - Nonna, l’hanno ritrovato infine... Un camminamento nuovo che ha portato a lui, agli altri poveri morti... Per lei... Queste povere cose credo le appartengano...-

Posto sul tavolo l’involto scioglieva crepitando come l’ostia franta, minuzzoli di carta annerita d’un quadernetto cadevano sulla cerata. Parole per ogni pagina, parole sporche, alcune anche illeggibili più

somiglianti a rune incise in una patina di fango indurito. Parole che Martina faticava a leggere seppure con l’aiuto degli occhiali. Parole, un sibilo di vento dalla finestra s’era messo a modularle con la voce della tormenta carica di neve, che all’intimo della donna bisbigliavano sorgendo dal ventre della montagna:

“...C’è stato uno scoppio, il gas, la galleria è... Siamo rimasti sotto, in pochi, poca luce dalle lampade del casco... Buio, luce che muore, luce che...”Pagine dall’umido ridotte in poltiglia, pagine col diagramma indecifrabile d’un tratto di matita stretto tra dita indurite dal gelo, una pagina che poche parole portava vergate come una sibilla, un pianeta della fortuna:

“Muoio, altri sono già morti, Martina mia, manca l’aria, manca la luce... Non s’odono più colpi, non ci cercano più... L’unica luce che mi rischiara è la tua foto, il tuo volto che stringo tra... che... alle labbra...”

Pagine che anche le lacrime di Martina consumavano e il rivoletto di fanghiglia dissolta stillava sulle mani della donna sciogliendo l’ultime parole lasciate in dono: “È finita, mia sposa, finita... Ma... ma... ma se un giorno mi troveranno voglio che ti portino il mio dono di nozze, la pietra preziosa che ti promisi, il diamante che ho tra le mani... Buio, non vedo più, addio...”

La fronte china sulle braccia, sul dorso delle mani la conta degli anni d’attesa, il morire dei giorni nella liberazione amara del pianto.Martina levò a fatica, una tragicomica maschera il volto che rossetto, rimmel e terra colorata avevano deturpato d’aloni clowneschi.

S’aiutò con i mobili del cucinino, col tatto delle pareti e varcò la soglia della stanza. Passi stanchi, incerti, passi fermi alla battuta del comodino e armeggiare, cozzare di cose, strofinio leggero, scheggia di luce negli occhi, crepitare di carta lucida, cornici d’argento ripulite in cui due foto, l’una ancora perfetta, l’altra pressocché distrutta dall’umido, si rimiravano sorridendosi estatiche dal tempo infinito.

Ecco, il tempo veniva e già, porgendo l’udito, le pareva dal fuori stropicciare il passo nella neve un angelo caduto in volo. Martina, indossato l’abito da sposa, spenta la luce, s’era disposta in attesa sul letto, in mano il

gioiello di nozze pervenutole dall’aldilà, il diamante, il diamante nero, la pietra di carbone...