Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2008

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

IL TASSELLO MANCANTE

 

di Francesco Bicchieri

Lodi

Trovarono un vecchio una mattina d’inverno. Lo trovarono addormentato per sempre su una panchina del parco, con il capo reclinato e la sigaretta cadutagli di bocca prima che potesse accenderla. Teneva ancora il cerino consumato in mano e aveva un’espressione serena in volto. Lo coprirono con un lenzuolo finché non venne suo figlio Carlo per il riconoscimento. Il medico legale ne aveva già constatato il decesso per infarto, un attacco improvviso che l’aveva spento in un istante, lasciandogli però in viso un alone di pace, come se la sua mente si fosse eternamente arrestata su un dolce pensiero. Il dottore fece notare a Carlo la foto bruciacchiata finita sotto la panchina, una foto scattata durante la guerra, quando suo padre, Clemente Abbandonato, era capitano degli alpini nella divisione Julia nel Quaranta. Probabilmente il vecchio le stava dando fuoco col cerino quando fu colto dal malore.

Perché mai suo padre dopo averla custodita 50 anni nel portafoglio quel giorno avrebbe deciso di bruciarla? Questo Carlo proprio non se lo spiegava. Prese ciò che della foto non era andato in fumo, ben poco per la verità, e se lo mise nella tasca interna della giacca. C’avrebbe pensato dopo i funerali a quell’inspiegabile gesto di suo padre.

Tre giorni dopo gli telefonò il segretario del vescovo dalla curia. Carlo all’inizio pensò si trattasse di una questione burocratica legata al funerale. Ma quando il segretario gli disse che suo padre il giorno in cui morì avrebbe dovuto presentarsi al vescovo per una testimonianza, se ne stupì. "Suo padre non le aveva accennato nulla?" gli chiese il sacerdote. Nulla, non gli aveva detto nulla. E non riusciva a comprendere che legame potesse esserci tra il vescovo e suo padre. "Potrebbe venire domani da noi?" Gli domandò infine il segretario, una richiesta che suonò alle sue orecchie come un "dobbiamo assolutamente parlarle." Fu così che la mattina dopo si presentò in arcivescovado.

Di sua eccellenza, quello che più lo colpì, fu l’estrema bonarietà e immediatezza. Dopo averlo fatto accomodare ed essersi scusato per averlo convocato in quei giorni funestati dalla perdita del genitore, monsignore prese un foglio da una cartelletta e iniziò a leggere a voce alta: "Clemente Abbandonato, classe 1915, nato a Treviso, figlio di…" e qui si interruppe non sapendo come proseguire.

"Della carità eccellenza, gli venne in aiuto Carlo, mio padre fu abbandonato appena nato e cresciuto dalle suore fino alla maggiore età." "E poi?" Chiese monsignore appoggiando il foglio sulla scrivania.

"Per interessamento di un alto prelato entrò in accademia militare e servì come capitano degli alpini nella divisione Julia fino al ’43, poi la scelta partigiana, la Liberazione e infine un po’ di tranquillità anche per lui: il matrimonio, la famiglia, un figlio, cioè io" disse indicando sé stesso.

"Una vita irta di ostacoli e sofferenze ma pregna di significati" commentò monsignore e rimase in silenzio a fissare la parete che aveva di fronte. Poi si alzò lentamente dalla poltrona in cui era sprofondato e con le mani dietro la schiena si avvicinò rapito e assai pensieroso a un dipinto che raffigurava un sacerdote anziano con un bimbo disabile in braccio, entrambi sorridenti, studiò l’immagine per un po’ e infine si voltò al suo ospite.

"Da ricerche fatte risulta che suo padre è, anzi mi scusi, era una delle ultime testimonianze dirette della marcia che nel ’41 il suo battaglione fece risalendo la Vojussa fino al passo di Metsovo durante la campagna di Grecia. In quella stessa marcia era impegnato un giovane cappellano militare nella formazione alpina Val Tagliamento, don Carlo Gnocchi. Avevo fatto convocare suo padre perché – e qui pesò le parole – stiamo cercando, non dico ossessivamente ma devo ammettere con un certo impegno e sforzo, una testimonianza, o per meglio dire un tassello mancante per perfezionare il processo di canonizzazione di don Gnocchi, anche se il popolo di Dio lo considera già santo per tutto ciò che fece in vita, specie per gli orfani, i disabili e i mutilati" - e indicò il quadro alla parete.

"Purtroppo però – aggiunse allargando le braccia sconsolato – non potremo mai più sapere da suo padre se era a conoscenza di un qualche episodio di santità, di un’intercessione fatta da don Carlo Gnocchi a favore di qualcuno di cui lui abbia avuto un’esperienza diretta o indiretta in quanto riferitagli da altri durante quell’avanzata militare in cui operarono nelle stesse zone. A meno che…" E qui si interruppe.

"A meno che?" Lo invitò a proseguire Carlo.

"A meno che suo padre non le abbia raccontato qualcosa, un aneddoto, una diceria che possa collegarsi con don Gnocchi: le avrà pur accennato in tanti anni a qualche vicenda che lo vide impegnato in Grecia…".

"Certo che mi raccontò della Grecia, me ne parlò spesso ovviamente, ma non mi ha mai fatto cenno di cappellani militari. E poi mio padre era decisamente ateo, non credo di poterle essere utile."

"Era comunque un tentativo" - disse tristemente il vescovo - "mi dispiace di averle fatto perdere tempo inutilmente con questa vicenda", e gli porse la mano per accomiatarsi. Carlo nel dubbio se baciarla o no gliela strinse ma mentre se ne separava ebbe un’esitazione e l’afferrò di nuovo.

"Per la verità mi accennò ad un prete una volta" confessò a mezza voce.

"Continui, la prego" disse monsignore accompagnando l’invito con un cenno della mano e tornando a sedersi accanto a lui.

"Mio padre non si stancava mai di dirmi quanto la guerra sia tremenda, un orrore indescrivibile. Chi non ne viene schiacciato dalla sua crudeltà può diventare solo ateo o santo. Per ciò che vide e soffrì mio padre non poté che diventar ateo, non credere più in nulla se non nel sacrificio degli alpini della sua compagnia e in se stesso." Il prelato ascoltava in silenzio pregando in cuor suo. "Mi raccontò di una volta in prima linea. Da dieci giorni erano sotto il fuoco nemico. Era pieno inverno, la Grecia non è la Russia ma il freddo è sempre un freddo che uccide, e comandava i resti di due compagnie, 150 uomini congelati, ragazzi coraggiosi ma in cattive condizioni. Erano stati lenti nel ripiegare, perché i greci combattevano bene ed erano meglio equipaggiati. E loro s’erano spinti troppo avanti così il nemico era riuscito a circondarli. Sarebbero morti tutti pur di non arrendersi, dal comando gli avevano detto di resistere, che sarebbero venuti, ma era chiaro che li avevano lasciati a sé stessi, non sarebbero venuti affatto, la neve superava il mezzo metro ed era del tutto impossibile avanzare. Quando tutto è perso ecco che giunge invece un giovane pretino. E mio padre giù a bestemmiare perché, mi scusi monsignore se lo dico, ma era un gran bestemmiatore, alpino e bestemmiatore, ma non era una bestemmia rivolta a Dio, era il suo modo, il modo di molti in quella situazione per sfogare la propria disperazione per quel che li attendeva".

"Dunque?" Domandò monsignore invitando Carlo a proseguire.

"Dunque avevano appena subìto un attacco frontale che erano riusciti a respingere. C’erano parecchi feriti e questo pretino, lui lo definì così, se n’era venuto con un altarino da campo, con una targhetta di smalto bianco con la scritta in nero ‘altare’ e l’aveva piazzato in mezzo alla trincea. Più malaugurio di questo… Mio padre doveva tener alta la fiducia nei suoi ragazzi, non cantar loro la messa funebre! Invece qualcuno di questi ragazzi, bestemmiatori come lui, gli chiese se concedeva il permesso di far celebrar messa a quel prete capitato lì. Quello diceva che era venuto in prima linea a portar conforto in questa difficile prova, perché dove c’è la sofferenza degli alpini ci deve essere anche la presenza di Dio. E infatti il suo solo apparire in mezzo a loro aveva già riacceso in tutti la speranza o almeno il conforto. Pensavano che s’era riuscito lui non si sa come a superare le linee nemiche, sarebbero arrivati prima o poi anche gli aiuti. Diede quindi il permesso per la messa. In certi momenti le parole scaldano più dell’acquavite e mio padre confidava in questo, anche perché di grappa non ce n’era quasi più per dar coraggio ai suoi. Però da ateo qual era, mio padre non rinunciò a un’idea perfida nei confronti di quel prete: fece accovacciare lungo il camminamento i suoi uomini, e costrinse il pretino a stare in piedi e sporgere mezzo metro dalla trincea. Vediamo se il tuo dio ti protegge dalle pallottole, fu la sfida che gli lanciò in quella circostanza. Invece per tutta la funzione i fucili nemici tacquero, quasi per non disturbare la messa. E il prete fece una predica toccante. Mio padre, le ripeto, era un mangiapreti, però quell’omelia se la ricordava bene, perché quando stai per morire ogni particolare, anche il più insignificante, si riempie di significati. Parlò di quella volta che Abramo convinse Dio a non distruggere una città malvagia per risparmiare cinquanta giusti che l’abitavano." "Dieci! – Precisò il vescovo citando le Scritture – forse se ne troveranno dieci, dice Abramo. Per amore di quei dieci, io non la distruggerò, promette Dio".

"Esatto - esclamò Carlo - Proprio quella predica fa il prete! E poi aggiunge alzando le braccia al cielo: se in questa trincea ci fosse anche un solo giusto tu, o Dio, intercedi per tutti questi tuoi figli prediletti. Mio padre mi disse che allora gli scappò di dire che il prete se la cavava troppo facilmente perché l’unico giusto lì presente, se anche uno ce n’era, poteva essere solo il prete stesso. Ma quel pretino con le parole e i gesti ci sapeva fare e furono in molti nella compagnia che finirono per commuoversi e piangere. E dopo la messa smontò il suo altarino da campo tra pacche sulle spalle e divise con loro l’ultimo sorso di acquavite rimasta prima di andarsene così com’era apparso, che parve a tutti di non averlo mai incontrato, e rimasero solo le sue parole nell’aria, come il rimbombo di cannonate lontane. Lo sa, monsignore, che tornarono tutti e 150 a casa quei ragazzi, e se mio padre sopravvisse e io di conseguenza nacqui, ateo e mangiapreti com’era lui, lo attribuì all’intercessione di quel pretino."

"E questo pretino, come lo chiamava suo padre, era don Carlo Gnocchi?" Chiese il vescovo.

"Chi fosse non lo so, ma posso mostrarglielo."

"In che modo?"

"Gli scattarono una foto insieme mentre brindavano."

"E questa foto è possibile vederla?" Chiese tradendo l’emozione monsignore.

"Certamente" disse Carlo mettendosi una mano nella tasca interna della giacca. Solo allora si ricordò che la foto era andata in fumo proprio nella parte dove appariva il prete. Per la prima volta in vita sua capì in onore di chi suo padre l’aveva voluto chiamare Carlo e perché proprio quel giorno distrusse la prova inoppugnabile che aveva custodito per più di cinquant’anni.

Improvvisamente per Carlo tutti i tasselli della santità furono al posto giusto. A monsignore continuava a mancarne sempre uno.