Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2008

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Secondo classificato

URLA DALLA MEMORIA

 

di Giuliana Arpini

Rovellasca - (Co)

Sono accucciata qui. Anni a girovagare per il mondo sino a che non ho più tenuto il passo. Non ho retto l’andatura veloce, caotica, sconnessa che mi impediva di pensare, canticchiare, guardare. Senza preavviso, mi sono inchiodata come un mulo che raglia e non c’è verso che si muova. Per una che di mestiere fa la giornalista tutto ciò è drammatico. Scoppia una bomba interna e deragli ai bordi. Immobilità. Differenti fronti diventano uno: il tuo devasto.

Prima dello scoppio raccontavo le guerre; ci sono entrata a tal punto da trasformarmi in un missile sempre puntato. Scrivere notizie coincideva col centrare qualcosa: il cuore delle persone? Miravo e pum. Forse ho contribuito a rendere le informazioni un business da quotare in borsa.

I primi pensieri che ruminavo, dopo il fragore, giravano intorno all’etica. Le domande sgorgavano incalzanti: la redazione non ha bisogno di un missile che si interroga. I colleghi mi guardavano come un’aliena. "Riprenditi cara" - mi diceva il capo - "sei sempre stata una dura e, adesso, sembri semolino." Farfugliavo e scuotevo il capo.

Oppressa dall’angoscia, ho optato per il ricovero in una clinica dove vanno gli scoppiati per il tagliando d’emergenza. Calciatori, gente dello spettacolo, industriali stanno tutti insieme a riprendere fiato.

La prima settimana, un po’ di gente mi bazzicava intorno. Chi per sincerarsi che fossi proprio ko. e tirare un sospiro di sollievo; chi per studiare il fenomeno e chi, come il mio capo, per capire se mi sarei rimessa in pista e in quanto tempo.

La seconda settimana vuoto, silenzio. Mai sentita così sola. Invece di risollevarmi, precipitavo come su un ascensore rotto. Provavo paura. Eppure, per lavoro, ero stata anche in zone assai pericolose. Gli attacchi che arrivano dall’esterno sono quasi meno spaventosi; quando il pericolo è dentro non sai dove scappare. Lo psichiatra che mi aveva in cura parlava di trauma. Il mio tsunami era coinciso con l’ultimo viaggio in Afghanistan e, insistentemente, egli mi chiedeva cosa ricordassi della missione. Per me era passato remoto e non mi importava di tornare là con la memoria. Avevo ben altre questioni in mente.

La terza settimana entrò nella stanza mio padre. Scossa dal fatto che si fosse scomodato, pensai che la situazione doveva essere grave. Non lo vedevo da mesi e non contavo su di lui da tempo. Mi aveva sempre detto che nella vita è importante essere indipendenti e forti; questo era diventato il mio motto al punto che vivevo sola e avevo scelto di essere inviata di guerra. Nel desiderio di guadagnare la sua stima ho fatto scelte pericolose. Mio padre era scappato in Italia dalla Cecoslovacchia, espropriato di ogni bene tranne che dell’amore di mia madre. La condizione emotiva del profugo insieme alla convinzione di non avere più nulla da perdere mi sono entrate nella pelle. Da ragazzina, lo invidiavo poiché nulla sembrava scalfirlo. Non mi sarei mai aspettata di vederlo dal letto di una clinica psichiatrica.

Muti, entrambi ci siamo guardati a lungo. "Che succede?" Mi ha domandato calmo. In risposta, ho pianto con le stesse inattese lacrime che mi avevano travolto al funerale di mia madre. Discreto, mi ha accarezzato la testa dicendo: "Non restare qui, non è un posto per te. Ti ho portato le chiavi della baita di tuo nonno." Mio padre è sempre stato essenziale nell’esprimersi; credo di aver assorbito da lui lo stile giornalistico tanto apprezzato. Quel giorno, concluse con un sorriso e, prima di andarsene, mi lasciò il portachiavi di legno intagliato a mano.

L’invito sembrava insensato, ma lo colsi immediatamente. Non è stato facile convincere lo psichiatra che me ne sarei andata a trauma inesplorato; per fortuna ne avevo ancora facoltà.

Passai dal giornale a chiedere l’aspettativa che, naturalmente, mi fu concessa al volo. Tenere nei paraggi un’entità che nutre dubbi tanto profondi sul senso del sistema è pericoloso. Le persone con cui avevo collaborato, per anni, mi sembravano nemiche e infide. Mentre il capo mi diceva di stare tranquilla io decodificavo: "togliti dalle palle e fatti rivedere solo se rinsavisci".

Sul taxi, nel traffico insopportabile, una donna sfatta e triste viaggiava con lo zaino vuoto: dove era diretta? Verso un tempo popolato di emozioni e uno spazio abitato da cime rosate.

Da un mese vivo nella baita. E’ l’unico bene che posseggo: l’ ho ereditato alla morte di mia madre. E’ un rifugio minuscolo scaldato dal fuoco potente del camino; dalle finestre entrano dolomiti e cielo. L’approdo è stato faticoso ma ho preso possesso del territorio. Il nonno ha costruito ogni particolare con passione: lo respiro. Era un uomo sereno nonostante portasse le cicatrici di due guerre mondiali. Tra queste punte di pietra aveva trovato equilibrio. Mi sono spesso chiesta perché fosse venuto ad abitare così vicino alle trincee in cui aveva passato un anno e mezzo della vita. Che ricordare fosse stato l’unico modo per dare senso all’esperienza di fare il soldato a soli diciotto anni? Raccontava a me, piccola nipote amata, episodi indelebili di quel periodo domandandosi come mai fosse tra i sopravvissuti. Allora, ero convinta che fare la guerra volesse dire stare fermi e avere i nervi saldi.

Echi del mondo arrivano attraverso la radio che accendo con parsimonia. Sono in fuga dalle notizie. Mi ribello a qualcosa che non identifico. Talora mi sento inetta e impotente, talaltra curiosa e intraprendente. Ho smesso di considerare normale vedere persone che si sparano addosso e che, alla televisione, sembrano personaggi di una soap opera. Sospetto che il lavoro svolto sinora, con dedizione assoluta, non sia stato un valido contributo all’informazione. Ho messo in moto parole che si sono connesse ad altre parole: sono state sufficienti a comunicare la catastrofe dei fronti? Esperienze terribili da sintetizzare nel formato del giornale, da ridurre al rapido tempo di un intervista. Chi è dall’altra parte del mondo coglie la puzza costante di rancido e di fumo? Dubito fortemente.

Esploro con discrezione il nuovo paesaggio. Lunghe passeggiate mi fanno incontrare sensazioni inaspettate. La montagna sta entrando piano e forte. Penso alla vita che si assottiglia nei mondi metropolitani. Il mio personale elisir è stato viaggiare cercando di capire cosa stesse accadendo ma una patina si è insinuata ed è diventata sempre più spessa. Qui bevo un latte che sa di latte e riscopro profumi, odori, suoni, colori.

Oggi è una giornata calda in cui il sole settembrino varca il cielo senza chiedere permesso. La vetta del Falsarego mi abbaglia e decido di esplorare le trincee. Infilarmi nei cunicoli in cui mio nonno sostò mi attrae. Voglio immaginarlo e intuire che differenze ci sono tra la sua guerra e la mia. Ho trovato un vecchio album che lo ritrae in divisa da alpino con il battaglione: ragazzo sorridente e baffuto. Quanti racconti tornano alla memoria! Pescavamo insieme nel fiume intonando canti nostalgici e commoventi.

Entro nell’oscurità e mi manca il respiro. Forse quaggiù il tempo di creare legami c’era, lassù è come se lo avessimo perso. Il cuore batte nel buio che c’è dentro, che c’è fuori. La montagna è colorata ma, utero stretto, mi soffoca: "Come hai potuto sopravvivere qui? Cosa ti ha dato la forza? Mi raccontavi che il pezzo di pane della razione aveva il sapore più buono della vita. La tua guerra, nonno, non aveva niente di simile alla mia?" Piango, grido: "Non ce la faccio!" Fuggo fuori sfregando la pelle sulle pareti di roccia umida. Credevo di essere una persona forte, di aver imparato a sopportare qualsiasi prova. Non è così.

Sono accanto all’uscita della funivia. Ho bisogno delle persone che arrivano e, contente, ammirano le cime; mi scaldo con i sorrisi di sconosciuti. Solo un mese fa, dipendevo, unicamente, dal cellulare e dal pc portatile: vivevo in simbiosi con loro. Ero sempre connessa alla rete. Il cellure suonava e, in due ore, ero all’aeroporto. Ora mi chiedo quale fosse la meta. Un altro modo di stare in trincea? Al ritorno da Kabul avevo perso i miei preziosi compagni.

Guardo le mucche mentre cammino lente. I pensieri sono proiettili che vanno e vengono creando urto. Ho il tempo di pensarli però mentre quando lavoravo no. Li vomitavo fuori sparandoli in altri emisferi attraverso canali virtuali, reali come pietre. Cronaca, cronaca, cronaca.

Mi torna nella mente, come volo d’aquila, la montagna su cui mi sono inerpicata nell’ultimo viaggio. Brulla, arsa. Ero con altri giornalisti e una guida magra. Il collega inglese raccontava barzellette ciniche: al fronte, si inventano svariati modi per sopravvivere al terrore di morire.

Il cuore sale nelle tempie mentre ricordo. Cado a terra. E’ lì, cazzo, che mi sono sconnessa quando è cominciato l’attacco e la guida è caduta morta sorridendoci in faccia. Terrore. Urla, dalla memoria, mi immobilizzano ma non smetto di rammentare. Buttate le borse a terra, correvamo, pazzi di paura. I guerriglieri ci hanno sbarrato la strada. Buio. Quando ho riaperto gli occhi un pastore mi ha dato dell’acqua. Ero in preda alla confusione tra incubo e realtà: chi era morto e chi vivo? La guerra distrugge e, al contempo, crea difese possenti. Annaspavo nel vuoto e, di colpo, ho pensato ad altro. Solo ora capisco la cautela e la circospezione nei miei confronti. Comprendo perché lo psichiatra insistesse tanto. Eccolo il trauma: omicidio in diretta. Dissociazione vuol dire, dunque, amputazione: quel pezzo della vita l’avevo tagliato via dalla mente sino a qualche minuto fa.

Mi scoppia la testa, sudo ma continuo a ricordare. Sto a terra, ora come allora, con la differenza che la mente è "on". Vedo il film atroce che avevo cancellato anzi nascosto in archivi top secret. La notizia avrebbe potuto suonare così: "Strage cruenta sulle montagne, unica sopravvissuta la giornalista cagasotto svenuta dalla paura; al risveglio pare ammattita."

Lacrimo e ansimo. "Quella donna, nonno, sono io e non so se avrò il coraggio di rialzarmi. Ricordi il papà? Non ha parlato per tre anni dopo che la mamma gli è morta tra le braccia."

Le mucche fanno ciondolare i campanacci al ritmo rassicurante del loro passo. Un cane mi lecca la faccia. Seguo l’alito caldo per trovare la via d’uscita. Guardo i suoi occhi marroni, come la terra, che mi fissano bonariamente. La morsa della colpa si allenta: potrò tollerare il fatto di essermi salvata? Prevarrà la vergogna e mi sentirò una codarda per il resto dell’esistenza?

Lotto e recupero tutto ciò che avevo lasciato altrove. Le emozioni mi spezzano. Sento l’urgenza di scrivere i ricordi anche se, come fulmini, mi ustionano. Questa volta, non ridurrò il dolore allo spazio esiguo delle colonne del giornale e urlerò ciò che provo con dignità. Che sia questa la strada per non assuefarsi alla guerra e cercare, con impegno, il modo di farla finire?