Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XII edizione - Arcade, 5 gennaio 2007

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Primo classificato

L'UNDICI SETTEMBRE

 

di Angelo Francesco Paloschi

Venezia

Appesi al cavo d’acciaio guadagniamo rapidamente velocità e quota. La funivia si è staccata dalla stazione di Penia e punta decisa verso il rifugio Ciampac, a duemilacento metri d’altezza, sulle pendici di origine vulcanica della Crepa Neigres. Assieme a noi riempiono la cabina una trentina di persone, per lo più turisti con lo zaino appoggiato fra le gambe e il pensiero all’itinerario della giornata. Tullio mi parla di lavoro, certe volte non è capace di staccare. Lo ascolto svogliatamente guardando l’abitato che rimpicciolisce.

Sul sentiero, un gruppo di escursionisti col naso per aria ci guarda scivolare via come un’astronave tra le montagne. Sembrano tutti tacere, da qua sopra il mondo perde d’un colpo i suoi suoni. Ci rimane l’improbabile musichetta distensiva trasmessa dalla radio di bordo, mescolata alle conversazioni confuse di questa piccola umanità in scatola. Saliamo sospesi in uno sterminato silenzio. Il cielo si sta aprendo, gli apici degli abeti hanno smesso di ondeggiare, segno che si è placato il vento. Ci siamo presi un giorno di ferie, io e Tullio, e forse questa volta abbiamo scelto bene.

Lui ha smesso di parlare, osserva il panorama e finalmente si rilassa. Sotto i nostri piedi aumenta la distanza che ci separa dal suolo e se guardo in giù, sulla verticale, so che compare quello strapiombo al quale non riuscirò mai ad abituarmi. In genere, i valligiani come me non ci fanno caso, prendono gli impianti come fossero autobus. Io non ce la faccio: non lo so, piuttosto che guardare di sotto preferisco tenere lo sguardo fermo in direzione delle cime, seguire i profili delle creste, le cenge e le fessure che incidono le pareti, lo sviluppo delle nubi incastrate fra i crinali. Più spesso ancora mi guardo attorno nella cabina e di sottecchi studio i volti dei miei casuali compagni di ventura. Osservo quelli con cui dovrei condividere la fine nel caso dovessimo cadere. Io sono così. Su ogni viso cerco di leggere una storia, un pensiero, una meta da raggiungere in quota. In questo modo mi distraggo e faccio passare il tempo.

Sotto il mio sguardo un bambino ispeziona una macchinina di metallo rigirandosela tra le dita. Non sembra interessato all’ascensione. Quella che dev’essere sua madre è impegnata a commentare i prezzi degli affitti a Moena assieme ad una chiassosa compagnia di amici. Hanno un bell’accento toscano, i modi affabili e schietti di chi viene da Firenze. Due coniugi tedeschi, poco più in là, additano percorsi dalla parte del Viel del Pan. Parlano sottovoce, lui ha un’aria da ingegnere in pensione. I tedeschi si riconoscono, sono geometrici ed essenziali dai gesti al vestiario. Maneggiando cartine topografiche si accostano alla montagna in punta dei piedi. Mi spiacerebbe anche per loro, precipitassimo. Tengo d’occhio i cavi d’acciaio sopra le nostre teste. Non mi piacciono le funivie, confermo a me stesso desolato.

Tullio mi chiede se ho portato il martello come l’ultima volta che abbiamo fatto un giro insieme. Che domande: sostanzialmente vengo quassù per questo, per un cristallo che sta diventando un’ossessione. II martello da geologo lo tengo nello zaino assieme ai sacchetti per la raccolta. Sono anni che vado in cerca di una zeolite degna d’essere messa in vetrina: non lo chiedo per me, giuro che la porterei a Predazzo e ne farei dono al museo di geologia. Il fatto è che sta diventando una sfida con questo vecchio mucchio di sassi mesozoici. Conosco come le mie tasche le rocce della zona, le ho studiate, maneggiate, annusate, ho bucherellato come un picchio ogni parete raggiungibile: temo a questo punto che sia una questione di feeling, c’è una cortesia che la montagna non mi vuole concedere.

Lo sguardo mi cade su un turista insolito. È stipato in piedi tra gli altri presso il piccolo vano dell’assistente di servizio. Si direbbe un islamico, la barba folta, lo stampo delle popolazioni mediorientali. Quassù non se ne vedono spesso, non è il genere di posto che interessi ai musulmani. Mi salta all’occhio il vestiario eccessivamente leggero, porta una giacchetta inconsistente per l’alta quota e pantaloni di lino chiaro con mocassini neri. Sono assalito da un sospetto, cerco di scacciarlo ma un tarlo mi divora mentre saliamo. Per una volta volevo affrontare la funivia senza ansie ed ecco invece che il cuore mi va in fibrillazione.

Faccio capire a Tullio di guardare lo straniero. Lui appena lo inquadra alza le spalle e fa una smorfia di stizza. Quella gente non la digerisce. Non ha capito, però, a che cosa alludo. Siamo trenta occidentali appesi nel vuoto assieme a quell’individuo. Con quello che si sente in giro di questi tempi.

Lo straniero copre qualcosa che tiene sotto la giacca, lo cela con noncuranza sotto le braccia conserte. È un rigonfiamento all’altezza dello sterno che mi pare d’intuire quando muove una mano. Se fa esplodere un ordigno anche modesto non c’è scampo per nessuno. Sarebbe una morte molto televisiva, una strage ideale per l’apertura del telegiornale. La radio manda una canzoncina assurda per la circostanza, l’ascensione prosegue fluida come il fruscio di un rapace nel vento. La pendenza d’un tratto si fa più marcata, costeggiamo una parete vertiginosa e mi viene lo stomaco in gola ad ogni oscillazione della cabina. Sorveglio il presunto kamikaze e di quando in quando, mi viene istintivo gettare un’occhiata anche al cavo di sostegno. Quello tiene, per ora. Cristo. In tutto questo, il conducente non si è accorto di niente. I rilevatori di bordo che gli stanno di fianco, dei quali non si cura minimamente, mantengono accese sempre le stesse luci colorate, e le lancette restano stabili nelle loro posizioni. Gli strumenti non sono studiati per questo tipo di emergenza, non vedo probabile l’esistenza di alcun sistema di sicurezza. Ci raccontano che il mondo oggi è un po’ più sicuro, grazie agli americani, al grande lavoro d’intelligence dei paesi impegnati nel processo di “Pace duratura”. Già. Vengano qua sopra a ripeterlo, allora.

Un cicaleccio dalla parte del vetro frontale segnala la presenza sul pascolo di un paio di marmotte, pare appostate sulla soglia di una tana. Quella gente è come gli animali, se qui succede un disastro non se accorgono nemmeno. La montagna nel frattempo se ne infischia di tutto, delle vittime e dei terroristi, degli islamici e degli occidentali, porta avanti imperterrita i suoi cicli millenari.

Sobbalziamo al passaggio per il traliccio intermedio, la cabina vibra sotto la serie delle carrucole e ondeggia paurosamente facendoci urtare tra vicini. Qualche idiota fa “ooh... “ per scherzo, io seguito a controllare il musulmano. Ha sollevato una mano e si sistema il collo della giacca. Non porta con sé uno zaino, una borsa, niente. Non è attrezzato per l’arrivo in quota, mantiene uno sguardo indecifrabile e cupo. Forse sarebbe il momento giusto per saltargli addosso, per immobilizzarlo in qualche modo. Resta poco tempo. Dovrei prima avvicinarmi senza farmi notare, senza spingerlo a farsi esplodere sentitosi scoperto. Sono cose che si fanno nei film, non so, non mi decido. Compare intanto alla vista il parallelepipedo della stazione d’arrivo. Fingo di convincermi che ormai siamo in salvo, ma se credessi in un dio adesso mi metterei a pregare.

La cabina rallenta e i passeggeri si preparano a un’ordinata evacuazione, ci si aggiusta sul posto, si allacciano cerniere. C’è l’atmosfera vacanziera e carica di attese che è diversa da quella di ogni altro mezzo di trasporto. Una goccia di sudore sotto la maglietta mi attraversa la schiena dal collo all’osso sacro. Ho perduto le energie, non me la sento nemmeno di sollevare lo zaino. Il barbuto, l’arabo, rimane impassibile, come uno che studi la situazione alla ricerca del momento propizio. Magari sta caricandosi, si sta facendo coraggio. La base della cabina si incanala nelle guide d’acciaio fino a stabilizzarsi morbidamente dentro la stazione d’arrivo. C’è qualche interminabile secondo di attesa e finalmente si aprono le porte scorrevoli. La gente può scendere e portarsi all’uscita. La gente è stupida e non si spiccia, possibile che nessuno si sia reso conto di niente? Tullio per primo sembra fuori dal mondo, me ne accorgo quando mi chiede, sogghignando, se per la mole del minerale che porteremo a valle dovrò pagare un doppio biglietto di ritorno. Il musulmano è qui a neanche due metri, stiamo procedendo insieme a lui tra la folla. Ancora non succede nulla. Il flusso rallenta in prossimità della porta. Potremmo non arrivare a vedere le montagne. Poi, senza che possa rendermene conto, dopo l’uscita lo perdo di vista. Ci incamminiamo, una volta indossate le giacche e sistemati gli zaini sulle spalle.

In quota spira un vento pungente ma entro un’oretta l’aria si dovrebbe scaldare. Camminiamo con la valle dell’Avisio alle spalle, le pareti lucenti e lisce del Colac a sinistra e la mole altera della Crepa Neigres che ci sorveglia dall’alto, sulla nostra destra. A Tullio non dico niente delle mie apprensioni in funivia, sento che ci guadagnerei solo qualche battuta. Meglio concentrarsi sulla ricerca, a caccia di minerali tra le vulcaniti del Buffaure. Niente sa sollevarmi l’animo come lo splendore delle cime. Vengo sempre qua sopra con lo sguardo estatico del turista anche se sto a mezz’ora da casa mia. Mi sembra ogni volta di ritornare ragazzo. C’è il sole e poco dopo la partenza ci ritroviamo tutti e due in maglietta.

Armeggio qua e là col martello per tutta la mattina ma non trovo niente d’interessante. A mezzogiorno ci fermiamo per un panino e col boccone in bocca consultiamo le cartine. Ho aperto la mappa geologica vicino a quella dei sentieri, spiego a Tullio la disposizione delle lave triassiche e indico i punti di possibile ricerca. Ho estratto il binocolo dallo zaino: possiedo un vecchio e pesante modello russo la cui nitidezza riesce sempre a stupire chi mi accompagna nelle escursioni. Tullio s’indugia a cercare qualcuno che arrampichi ma le pareti intorno risultano vuote. È un esperto fanatico delle gesta di Tita Piaz, il “Diavolo delle Dolomiti”, il più grande dei nostri alpinisti di sempre: ne conosce ogni via aperta e ogni impresa nel dettaglio e mi sorprende tutte le volte con un aneddoto nuovo. Lo ascolto mentre racconta e nel contempo scruta i dintorni, finché si blocca con gli obiettivi puntati verso l’alto. Guarda là, dice, senza però passarmi il binocolo. Riesco solo a intuire una presenza, un puntino che si distingue appena sulla linea di cresta.

Quando ricevo lo strumento mi sistemo il fuoco. C’è una figura solitaria, in ginocchio, sembra prostrata alla maniera dei musulmani in preghiera. Descrivo ad alta voce ciò che vedo. È il barbuto della funivia, riconosco la giacchetta.

“Ma perché non vanno a pregare Allah a casa loro?” dice il mio amico.

Resto in silenzio. Continuo a guardare, senza binocolo, quel punto stagliato contro i cumuli bianchi.

Siamo in coda ai tornelli per il rientro in funivia. La cabina sta risalendo, è all’incirca a metà cavo, una scatola vuota sospesa nel vuoto. Tra poco la riempiremo, la riempirò della mia inquietudine e della mia rassegnazione. Ho il martello da geologo riposto nello zaino assieme a qualche pietruzza insignificante avvoltolata nei sacchetti, poche lamelle di heulandite, piccole augiti di consolazione. Questa volta è Tullio che me lo fa notare: dietro di noi è ricomparso il musulmano.

Non sembra intenzionato a rispettare la coda, si fa spazio di fretta senza chiedere permesso. Lo lasciano passare, qualcuno s’indispone ma nessuno se la sente di opporsi. Gli arabi di questi tempi non vanno stuzzicati. Intanto si avvicina, si avvicina e guarda me. Mi raggiunge.

“Il cuore della montagna lo conosce solo Dio” mi dice con il suo accento, fissandomi negli occhi.

Incrocio lo sguardo con Tullio, che è più interdetto di quanto lo sia io. Torno a studiare il volto dell’arabo: non me ne ero accorto, è lui che con un cenno mi induce a guardargli la mano. Tiene sul palmo una stilbite inconcepibile, un aggregato di cristalli candidi di grandissimo pregio.

“L’ho trovata per te, prendila” chiarisce, aprendo il volto irsuto in un largo sorriso. Non trovo nemmeno le parole per rifiutare.

Scendiamo verso valle appesi al filo di ragnatela, solo uno fra i tanti che imbrigliano queste montagne. Il turismo di massa, qui da noi, ha reso un cattivo servizio al paesaggio e ha portato sulle cime anche chi non se le merita. La cabina è piena. Mi guardo intorno: i volti, le storie, l’appagata stanchezza. L’arabo non c’è, ha percorso a ritroso la coda e se n’è andato uscendo da dove era venuto. Chissà se sta scendendo a piedi o se si aggira in alto, nel silenzio. Gli stili con cui accostarsi alla montagna possono essere tanti quanti è vasto il mondo. Una bambina accanto a me sta con il naso appiccicato al vetro, il paesaggio che sembra sorbire come una cioccolata calda a me ora infonde solo un senso d’impotenza. Abbasso gli occhi sullo zaino che tengo fra i piedi, lo tasto e lo sistemo ancora incredulo. Il mio regalo è qui dentro, protetto da un giaciglio di indumenti e sacchetti. Non c’è un cristallo del genere neanche al museo di Predazzo, dove mi sa che per un po’ dovrà continuare a mancare.