Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

IX edizione - Arcade, 5 gennaio 2006

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

IV NOVEMBRE

 

di Francesco Bicchieri

Milano

Quando nella foga dell’assalto, la pattuglia americana in campo aperto non poté più nascondersi alla colonna nemica in ritirata, l’alpino Gennaro Aguglia, mischiato tra i marine per puro caso, capì che affrontare gli austriaci era stata una follia.

Agli austriaci bastò piazzare due mitragliatrici per convincere gli statunitensi che il ritiro avveniva solo perché questo era l’ordine ricevuto, non certo perché non fossero più in grado di combattere.  Alle prime sventagliate Gennaro si gettò a terra, cercando di raggiungere un riparo, ma fu travolto da un corpo che gli cadde addosso, bloccandolo sotto il suo peso. Gli sembrò di soffocare, scalciò violentemente ruzzolando insieme al morto, quasi si stessero azzuffando. Insieme scivolarono sull’erba umida, avvinghiati, mentre intorno era  un inferno di grida e sangue.

Sbatté contro uno spigolo appuntito e si accorse di aver urtato un masso. Gli austriaci stavano oltre quel riparo e le due mitragliatrici sparavano a intermittenza a destra e a sinistra. Gennaro mise le mani sull’elmetto per proteggersi dalle schegge, quando di colpo tutto tacque. All’ultimo crepitio della mitragliatrice seguì un silenzio, interrotto solo dal battito d’ali di un corvo che saltellava nel prato in mezzo ai morti. L’animale aveva un’ala spezzata che trascinava a fatica, quasi fosse un corpo a lui ormai estraneo, un peso morto da cui non poteva liberarsi. Poi udì un solo sparo, un unico colpo secco di fucile che centrò il volatile ponendo fine alle sue sofferenze. Gennaro restò immobile a guardarlo. Solo allora si rese conto dei soldati sul terreno, carcasse simili al corvo. Corpi sfigurati, senza nome, carne bruciacchiata dai proiettili. In effetti Gennaro respirava  un odore di carne bruciata che gli penetrava le narici, e proveniva dal soldato morto accanto a lui. Solo allora capì di avere a fianco un morto, con un braccio impigliato nella cinghia della sua borraccia. Non era riuscito a liberarsene, e forse questa era stata la sua salvezza: l’americano lo aveva protetto dalla mitragliatrice e la chiazza di sangue che macchiava la divisa di Gennaro, era sangue di quell’uomo. Vide il suo fucile abbandonato a un metro, allungò la mano per prenderlo. Un unico colpo secco gli perforò la mano, un dolore insopportabile lo colpì al cuore, si sentì morire. Svenne.

Quando riaprì gli occhi, si trovò nel mezzo di una scena indescrivibile. Morti ovunque, il suo fucile nel mirino di un cecchino e la sua mano destra sanguinante. Prese una benda dalla dotazione di primo soccorso di cui era equipaggiato e la strinse attorno alla ferita. Strinse i denti e cercò di analizzare la situazione. La mitragliatrice, i morti, gli austriaci, un cecchino che aspettava solo che lui mettesse fuori la testa. Agli austriaci sarebbe bastato raggiungerlo e freddarlo, non avrebbe potuto opporre resistenza. Da lì non poteva andarsene, a meno che non fossero gli austriaci ad andarsene per primi. Iniziò a piangere, più per rabbia che per disperazione. Per quale motivo trovarsi faccia a faccia con la morte il quattro Novembre, giorno dell’armistizio? Avrebbe dovuto essere altrove in quelle ore, già sulla strada del ritorno. Guardò l’orologio: mancavano più di quattro ore alla pace, decise di restare immobile per tutto il tempo che lo separava dalla fine della guerra. Si rincuorò che anche gli austriaci attendevano la fine di questa sciagurata guerra, e non sarebbero venuti allo scoperto proprio ora. La guerra ormai era all’epilogo.  Forse bisognava attendere fino alle tre del pomeriggio, e poi chissà, magari avrebbero bevuto un po’ di grappa assieme. Non era la prima volta che austriaci e italiani solidarizzavano, anche se i comandi erano contrari a queste pratiche, nelle pause tra un assalto e l’altro, spesso in due trincee che quasi si sfioravano, si finiva per guardarsi negli occhi e sorridere dell’assurdità a cui erano costretti. A volte, lasciavano la trincea per  andare a chiedere al nemico una sigaretta, od offrivano un po’ di grappa da bere assieme. Allora succedeva il miracolo che tornavano a essere solo uomini e non soldati. Durava poco, fin quando un maggiore non urlava di rientrare, quasi fosse un maestro che rimprovera gli scolari. Allora tornavano in trincea e riprendevano a spararsi. Questo ricordava Gennaro nel dormiveglia febbricitante dietro il masso che lo riparava.

Quando il giorno prima la sua compagnia era stata decimata mentre ingaggiava uno scontro con una colonna austriaca, Gennaro strisciò fin dove il bosco si faceva fitto. Al primo sentiero si buttò nella macchia, inerpicandosi, sperando di ricongiungersi con i suoi alle luci dell’alba. Purtroppo il sentiero non lo conosceva, e proseguiva a naso cercando di rimanere a mezza costa. Avanzava con prudenza, ogni tanto si fermava e ascoltava. Solo il chiarore della Luna gli infondeva speranza, allora riprendeva a camminare e non voleva ammettere che si era perso.

Con l’arrivo dell’alba era sbucato nei pressi di un’altura dominata da un caposaldo dove erano acquartierati dei soldati. Gennaro capì che doveva trattarsi di una casamatta nemica. Gli austriaci però se ne erano già andati. La fortificazione, quattro mura sfondate e annerite dai proiettili, era occupata da una pattuglia americana, una delle poche mandate simbolicamente in aiuto agli alleati sul fronte austriaco. All’apparire di un alpino, infreddolito e sporco, quei soldati avevano riso e Gennaro si era ritrovato tra le mani un caffè caldo.

Theobald Moltke era il cecchino che teneva il fucile puntato su quel masso dietro il quale stava un italiano. I suoi compagni alle mitragliatrici avevano riposto i pezzi e fatto segno di andare, ma lui fece capire che non si sarebbe mosso e per meglio far comprendere il concetto estrasse dal suo taschino un orologio che appoggiò sull’erba a fianco del fucile. I due austriaci caricarono le mitragliatrici su di un mulo, salutarono e si allontanarono. Theobald Moltke riprese a inquadrare il masso nel mirino mentre la lancetta dei secondi del suo orologio compiva un altro giro.

Da civile Theobald Moltke era orologiaio. Proprietario di un negozietto con un’unica vetrina a Linz, il suo mondo prima del conflitto era costituito da impercettibili oscillazioni, da meccanismi antichi e delicati, da ticchettii sommessi e regolari. Poi venne la guerra, l’Austria aggredita aveva il sacro dovere di difendersi e ogni buon austriaco era corso a fare il suo dovere.

Erano passati quattro anni, ma Theobald ricordava tutto del momento in cui aveva lasciato la sua casa, affidando la moglie al suo unico figlio dodicenne, promettendo a entrambi che sarebbe tornato, e che avrebbe rimesso in moto i suoi orologi. Qualche ora ancora e la promessa stava per essere onorata.

Era la prima volta che Gennaro incontrava gli americani. Quei soldati che si sperava avrebbero cambiato le sorti della guerra, erano invece giunti solo quando non ce n’era più bisogno. Gli italiani erano caduti a migliaia all’Isonzo, al Grappa, a Caporetto. E ora questi ragazzini venivano a prendersi la gloria, puliti e ben equipaggiati che sembravano in vacanza, con una gran voglia di sparare.

I loro occhi non avevano però visto i morti assiderati nelle trincee, o la pioggia di granate all’iprite che sconvolge le menti. Quei ragazzi non conoscevano i lunghi mesi nel fango, non sapevano di topi, epidemie, di soldati imprigionati nel filo spinato, sfigurati dalla mitragliatrice per divertimento, non immaginavano uomini e cavalli squartati dalle bombe, divorati dagli insetti. Quei marine non potevano immaginare nulla, perché solo chi è stato in guerra può credere a ciò che vede.

Un ronzio sulle loro teste annunciò il passaggio di una squadriglia aerea, diretta verso la colonna nemica. Uno degli americani si era già messo il fucile in spalla e faceva segno a Gennaro di seguirlo. L’alpino dovette alzarsi e riprendere la marcia, infastidito che tornavano nel bosco dal quale era appena uscito vivo.

Theobald custodiva l’orologio che era stato di suo nonno e di suo padre. Le cure che vi dedicava erano note in tutta la brigata. Nelle ore morte, tra un assalto e il successivo, il piccolo orologiaio controllava con certi suoi attrezzi tutti i meccanismi di quel prezioso oggetto al quale anche il capitano affidava ormai l’ora precisa dell’attacco, non si sa se per scaramanzia o per amor di perfezione. Prendersi cura di quell’orologio gli faceva scordare di trovarsi al fronte. In quei momenti si immaginava al banco del  suo negozio intento a riparare, e le signore a passeggio per le vie, sorridenti coi cappellini alla moda, ai tempi prima della guerra. Ma già la trincea si preparava, iniziava un nuovo assalto. Allora rimetteva i suoi attrezzi in una scatolina di latta insieme all’orologio, che nascondeva sotto la divisa, in una tasca interna che si era cucito sopra il cuore, per farsene scudo dai proiettili.

Gennaro camminava dietro agli altri pieno di pensieri. Cosa avrebbe fatto ora che la guerra finiva? La sua casa era stato il carcere, per certi fatterelli dai quali lo Stato l’aveva perdonato per poi mandarlo al fronte. Una gran generosità, non c’è che dire. La lotta per la sopravvivenza gli aveva occupato la mente dal ’15 al ’18. Ora per la prima volta affiorava l’incertezza sul domani. Finiva la guerra, ma per Gennaro Aguglia sarebbe stata comunque dura, forse ancor più dura. Una famiglia non l’aveva, sarebbe andato dove capitava, dove due braccia robuste avrebbero fatto comodo per la ricostruzione. Per ora però bisognava stare in allerta. I superstiti austriaci di quella colonna in ritirata, inseguita dagli aerei si stavano riorganizzando a meno di un chilometro.

Che non avrebbero più vinto Theobald l’aveva intuito l’anno prima, nel Novembre ’17, quando dopo aver sfondato da più punti, giunti a 25 chilometri da Venezia, non ebbero più la forza di avanzare. Da allora l’esercito austriaco era in disfacimento, la grande armata perdeva colpi come un orologio che giorno dopo giorno accumula ritardo. All’orologiaio sembrava che solo il suo orologio, che era stato di suo nonno e di suo padre, continuasse a incarnare lo spirito dell’Austria. Il Comando, l’esercito, gli approvvigionamenti, e tutto l’Impero sembrava in cronico ritardo. Ogni dispaccio aggiungeva una piccola disfatta a quelle precedenti, fino alla resa finale. Eppure i suoi piedi calpestavano il suolo occupato. Questa era la sua rabbia. Per questo teneva il suo fucile puntato su quel masso dietro il quale il vincitore appariva in realtà sconfitto.

I soldati americani avevano individuato un drappello austriaco con un mulo e due mitragliatrici. Li avrebbero sopraffatti facilmente grazie all’effetto sorpresa, sicuramente gli austriaci non si sarebbero mai aspettati di essere attaccati in quelle ore.  Gennaro sapeva che questa era una crudeltà gratuita, come se n’erano viste tante in questa guerra. Perché fare altri morti? Perché altri orfani dovevano crescere nella rabbia e nell’odio di altri popoli? E soprattutto perché non far finta di niente e andarsene in silenzio? La realtà era che i mezzi, le truppe, i vettovagliamenti che avevano attraversato l’oceano non erano giunti fin qui per non partecipare al massacro. Bisognava giustificare l’impegno bellico ai tavoli di pace, dove la ricompensa sarebbe stata alta se il tributo di sangue versato fosse stato significativo. Quei ragazzi americani che andavano a caccia di austriaci erano anch’essi, come Gennaro, semplice carne da macello, rotelle dell’ingranaggio cinico della politica mondiale. Quando il capitano diede l’ordine di attacco, uscirono tutti contemporaneamente sparando mentre avanzavano, ma si resero subito conto che anche gli austriaci si erano accorti della loro presenza e avevano piazzato due mitragliatrici ad attenderli mentre il resto del drappello proseguiva la ritirata indisturbato. Gennaro si ritrovò al centro del fuoco, pensò che era finita, e cadde sotto il peso di qualcosa che gli franò addosso, ruzzolando sul prato umido di rugiada.

L’Austria e la Germania erano sconfitte, ma Theobald si era convinto che se avesse compiuto il suo dovere fino in fondo, le condizioni che i vincitori avrebbero imposto per la pace sarebbero state più onorevoli e non avrebbero causato nuove e ancor più dure guerre. Si ripeté ancora una volta mentre teneva il fucile puntato verso quel masso che era lui l’invasore. In quattro anni il nemico non era mai riuscito a violare il suolo austriaco.

Gennaro controllò l’ora. Erano le tre del pomeriggio, l’ora in cui Cristo perdona gli uomini in eterno. Chissà se gli uomini si sarebbero mai perdonati per i milioni di morti sui due fronti. Aspettò ancora in minuto per essere sicuro, poi si alzò con cautela mettendo fuori la testa per la prima volta. Non successe nulla. Si tolse l’elmetto e si asciugò la fronte. Riecheggiò nell’aria un unico colpo di fucile che centrò la fronte dell’alpino. Stramazzò a terra senza un rantolo. Restò immobile in mezzo al prato, con gli occhi increduli per quanto era successo. I primi goccioloni da un cielo infinito gli bagnarono il viso sorridente per la fine della guerra.

Ben fatto, pensò Theobald. Si alzò, caricò il fucile in spalla e si incamminò verso la sua colonna alla quale si sarebbe ricongiunto tra breve. L’ultimo colpo era andato a segno, non aveva sicuramente sofferto quell’italiano. Tra una settimana sarebbe giunto a casa, laggiù la guerra era finita da parecchio. Guardò il suo orologio prima di riporlo nella scatoletta, per lui la guerra finiva in quest’istante.

Quando giunse nel primo villaggio vide i contadini e le ragazze, che salutavano. Non c’era odio nei loro occhi, erano solo contenti che la guerra finiva e gli austriaci se ne andassero. Il campanile della chiesa diede un rintocco, due, tre. Theobald vide le lancette del campanile segnare la mezza. La controllò col suo orologio. L’orologio che era stato di suo nonno e di suo padre stranamente era in ritardo. Un minuto di ritardo. Si rese improvvisamente conto che il suo orologio era in ritardo di un minuto, che l’Austria era in ritardo sulla Storia, che fu sconfitta vera. Si rese improvvisamente conto che aveva assassinato un italiano in tempo di pace. Ebbe la sensazione che quell’alpino fosse la prima vittima di una seconda guerra, molto più cruenta della prima, che iniziava da quel giorno, quattro Novembre 1918, e che non si sarebbe più arrestata.