Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

IX edizione - Arcade, 5 gennaio 2006

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Rosa d'Argento"Manilla Bosi: sposa, madre e sorella di Alpini"

LA STORIA D'ITALIA

 

di Paola D'Agaro

Pordenone

Immagina, se ci riesci, prova a immaginare una sera di fine ottobre dei 1917.

Piove incessantemente da tre giorni. La sala d'aspetto della piccola stazione è gravida di odori, suoni, pianti di bimbi e richiami di madri. Lungo tutto il perimetro della sala sono accatastati fagotti, gerle, gabbie, coperte, catene, corde, pentole, fiaschi. C'è persino una forma di formaggio che qualcuno sta tentando di vendere a pezzi. I vecchi ciondolano con il berretto in mano in cerca di un posto dove accartocciare le ossa immiserite dall'umidità. I bambini saltano, si arrampicano, si intrufolano tra sacchi e valigie. Le donne si stringono negli scialli e lanciano sguardi distratti verso la porta ogni volta che questa si apre per far entrare una vecchia infreddolita o un giovane in divisa. Seguilo quel giovane, mentre si guarda intorno smarrito e spaventato, sbatte gli scarponi sul pavimento come se servisse a svuotarli dall'acqua. La porta cigola e sfrigola il vento tra le fessure. Sul soffitto oscillano un paio di lampade a gas.

Nell'angolo (riesci a vederla?) c'è una ragazza. E' seduta su una gabbia dentro la quale si agitano un paio di magre galline, i gomiti sulle ginocchia, gli occhi bassi, il mento tra le mani chiuse a pugno.

Quella ragazza, vedi, è la nonna di tua nonna. Prova ad entrare nei suoi pensieri, a seguirne i tortuosi percorsi. Vedrai una casa, un orto ‑ più l'orto che la casa ‑, decine e decine di scarpe, mani che le lavorano e poi alpini che marciano nel fango, generali che gesticolano: 'Mancata resistenza di reparti …vilmente ritiratisi senza combattere…disfattisti... ignobilmente arresisi al nemico!", fanti curvi sotto la tormenta inseguiti da ufficiali con l'elmo a punta, spuntati da chissà quale illustrazione del Lavoratore Friulano e il volto ingenuo di un giovane, poco più che un bambino, in berretto da marinaio. Ecco la seconda armata che capitola tra Tolmino e Plezzo, la disperata corsa verso la stazione, con le dalmine in mano. La bottega sprangata con le tomaie già pronte, solo da cucire (e chissà che ai Crucchi non venisse l'idea di portarsele via tutte, così avevano nascosto le suole nel fienile che con le sole tomaie non possono farci niente). E sua madre che piange per i figli mandati a farsi ammazzare sul Carso e per la Pfaff nuova di zecca finita anche quella sotto il fieno insieme alle suole e alla catena dei focolare.

Se ora l'hai persa di vista è perché si è confusa tra tutta quell'umanità grigio‑bruna e vociante, che sa di stalla e di fieno, che corre verso il treno appena entrato in stazione e cerca di conquistare un posto a sedere passandosi figli e bagagli dal finestrino.

Cercala, cercala ancora. La ritroverai accovacciata nel corridoio mentre osserva con apparente concentrazione la linea nera delle sue unghie listate a lutto o succhia soprapensiero il groviglio di capelli ribelli che svirgola fuori dallo scialletto fiorito, appiccicandosi alle guance.

Oppure ce l'ha proprio fatta a conquistare un posto nella panchetta e ora siede trionfante, fiera della sua agilità e della sua forza almeno pari alla sua intelligenza. Eh sì, lei proprio stupida non è: ha fatto la terza elementare che a quei tempi, dalle sue parti, significava essere appena un gradino più giù rispetto alla comunità dei dotti. E' per questo che non piange come le sue sorelle ora che c'è da scappare, da andare lontano. A lei piace l'idea di girare il mondo; mica le piaceva stare seduta a cucire scarpetti tutto il giorno.

Pur di uscire accettava qualsiasi incarico‑ ritirare il velluto dalla fabbrica, lo spago dal cordaio e suo padre dalle osterie di mezza vallata, quando usciva per affari e finiva per ubriacarsi così tanto da non trovare più la strada di casa.

Spesso, con la scusa di qualche commissione, andava ad acquattarsi in un angolo dei solaio dove, tra l'uva e le mele messe a seccare, c'erano un'intera annata della Domenica del Corríere, un paio di almanacchi e tre o quattro romanzi di cappa e spada che suo fratello grande, quello che aveva fatto carriera negli alpini, aveva dimenticato in una delle sue brevi visite alla famiglia. Le sorelle la vedevano rispuntare verso sera, quando si ripresentava in bottega come se niente fosse, con gli occhi rossi per lo sforzo di leggere al buio e in bocca qualche noce o qualche acino d'uva. Allora alzavano gli occhi dal grembo rigonfio di lenzuola e tovaglie e restavano ferme a guardarla, con l'ago per aria, senza sapere più cosa dirle, come rimproverarla per il corredo che non andava avanti e per le scarpe che loro avevano dovuto cucire al posto suo.

Non so come andò il viaggio, se scesero in qualche stazione intermedia, se qualche dama di San Vincenzo, qualche crocerossina di buona famiglia si avvicinò mai a quel treno di disperati per offrir loro cibo e acqua, per ascoltare i loro racconti smozzicati, intrisi di quell' estremo pudore, di quell'eccesso di riserbo che la gente di montagna da sempre spaccia per buona educazione. So che la sostennero la paura e l'eccitazione per l'ignoto cui andava incontro e anche il volto di quel marinaio bambino che intanto era colato a picco insieme all'incrociatore Amalfi, un paio di miglia al largo dì Venezia. E invece delle stelle alpine aveva le alghe a fargli da coperta.

Non so nulla di quel viaggio ma a volte credo di sentire l'odore della fuliggine, avverto il fischio della locomotiva in salita, sento gli scossoni che ogni minima deformazione delle rotaie scarica sul rigidi sedili in legno, percepisco il senso di soffocamento, il malessere e la nausea che il fumo provoca ad ogni ingresso in galleria, soffro la fame e la sete con loro, veglio le loro notti, inseguo le loro speranze, mi arrendo alla loro rassegnazione.

Il treno scese dalle montagne, tagliò la pianura con ampi sbuffi di vapore, si Inerpicò su nuove montagne fino a che montagne e pianure finirono e si arrivò alla fine dell'Italia. La nonna di tua nonna fu una delle ultime a scendere, poco prima dello stretto di Messina, in un paese alle porte di Reggio. Lì c'era una famiglia di gente perbene, signori, aristocratici che avevano accettato di accogliere le quattro profughe friulane. Le fecero scegliere‑ lavanderia e cucina o stalla e pollaio. Lei scelse stalla e pollaio. C'era da stare all'aperto e poi magari l'avrebbero lasciata trafficare nell'orto. Veder crescere una pianta che aveva seminato la riempiva ogni volta di stupore e di malcelata soddisfazione.

 

E invece all'aperto ci stette poco. C'era la guerra, la fame serpeggiava in tutta la penisola, correva voce di una rivolta scoppiata a Torino nell'agosto di quell'anno‑ barricate, negozi saccheggiati, incendi, alberi abbattuti e bandiere rosse issate sul campanili. Si vociferò di morti e di feriti, poi la notizia perse interesse e si ricominciò a parlare d'altro.

Ma la gente perbene adesso aveva paura, così i suoi benefattori nascosero il possibile in solaio, galline comprese.

Ogni mattina doveva salire a dar loro da mangiare e a raccogliere le uova in quello che era diventato un enorme pulciaio infestato da topi e parassiti di ogni genere.

Ma si sentiva libera, perché la madre era andata ospite di lontani parenti a Bari e lei dormiva con le sorelle nell'enorme fienile dietro alla casa dei padroni che, quando il tempo era bello, si riempiva di giovanotti sudati in maniche di camicia impegnati a caricare e scaricare fieno o in cerca d'ombra durante le pause dei lavoro nei campi.

Lei mangiava, ingrassava ed era felice.

 

E così passò anche l'estate dei quarto anno di guerra. Gli austriaci controllavano ancora i territori dei Friuli e della Venezia Giulia, le truppe italiane erano attestate lungo la linea dei Piave e dei monte Grappa. Il generale Diaz andava rassicurando i soldati che dopo la vittoria ci sarebbe stata terra per tutti. E tu non puoi capire cosa significasse allora la parola "terra" per i tanti che combattevano ogni giorno per mettere assieme il pranzo con la cena. I soldati smisero di disertare, la leva dei '99 garantì carne fresca per i cannoni nemici.

Fu allora che la nonna di tua nonna cominciò a sentirsi stanca. Saliva le interminabili scale che portavano alla soffitta con enorme fatica sentendosi ogni giorno più stranita e pesante. Le gambe gonfie, il ventre teso. Quando riusciva ad arrivare in cima si appoggiava al parapetto per prendere fiato con le ginocchia che si piegavano e la testa che girava.

Spesso, la sera, veniva assalita da un fortissimo mai di testa. Cercò di parlarne alle sorelle che non ci fecero molto caso conoscendo la sua innata tendenza al melodramma.

Dopo qualche giorno arrivò la febbre. La misero a letto ma la‑febbre, altissima, non accennava a diminuire. Tremava, si agitava. Passò un'intera notte insonne lamentandosi di dolori fortissimi alla schiena.

La mattina dopo. quando videro che il viso si era fatto congesto, rosso scuro, le labbra cianotiche, gli occhi iniettati, decisero di chiamare il medico.

Il dottore la guardò, auscultò i battiti, misurò la febbre, poi le chiese di mostrargli la lingua ma, per quanti sforzi facesse, lei non riusciva a sporgerla oltre l'arcata dentaria, come se fosse incollata al palato. Alla fine il dottore scosse la testa e ordinò alle sorelle d'i caricarla su un carretto e di portarla in ospedale.

Una settimana dopo, mentre la febbre non accennava a diminuire, comparvero le macchie. Dapprima poco sporgenti e di un colore roseo, poi sempre più scure tendenti al giallastro. Erano diffuse in tutto il corpo tranne che nel viso. La lingua era secca, fuligginosa, come pure le labbra e le gengive.

Otto giorni dopo il ricovero cominciò la fase delirante. La malata si agitava, parlava di elmi, di fienili, di tomaie. Sbatteva la testa di qua e di là, implorava. Subito dopo prendeva a ridere forte, poi ricominciava a gemere. Le sorelle si guardavano negli occhi senza saper cosa ‑lire. Da giorni si affaticavano nel tentativo di liberarle i capelli da una miriade di pidocchi. Erano così tanti che sulla sua testa si era formata una sorta di calotta appiccicosa, fatta di capelli misti a lendini e agglutinati da croste di odore nauseabondo.

Le tue prozie mi raccontarono che ogni tanto il medico faceva capolino tra i battenti della porta mentre erano impegnate nella difficile caccia, scuoteva la testa e diceva‑ < E' inutile, quando e se le cesserà la febbre se ne andranno da soli >.

Fu lo stesso medico che, una mattina, tra lo stupore generale, irruppe nella stanza e disse in un sussurro: <Ve lo devo dire: vostra sorella è incinta >.

La bimba nacque il 24 ottobre. Sul Piave era iniziata l'offensiva finale. In un ultimo, supremo sforzo, tra una fase di delirio e una di assoluto torpore, la madre decise che era venuto il momento di concederle il privilegio di prendere il suo posto nel mondo. Era una cosina minuscola, poco più di un paio di chili, prostrata ma non piegata dalla malattia della donna che l'aveva nutrita. Le zie la raccolsero, la infilarono in una scatola di cartone che avevano provveduto ad imbottire di ovatta e a riscaldare con un ingegnoso sistema di bottiglie di acqua calda e mattoni messi a scaldare nel forno. Poi, coi contagocce cercarono di farle succhiare quel po' di latte prezioso che una neomamma commossa aveva dato loro e infine, non prima di aver sospirato e scosso la testa senza trovare una sola parola adatta alla circostanza, l'abbandonarono al volere di Dio per occuparsi dei destino della madre.

Quest'ultima sembrò voler sopravvivere fino a che non si diffuse tra medici, paramedici e curiosi la certezza che, sbalorditiva mente, Dio aveva deciso che la piccola non doveva morire. Nessuno seppe mai da chi la bimba avesse preso tanta forza oltre che da quella madre un po' stramba ma più tenace di un mulo. Per tutti i giorni che le fu dato ancora di vivere ‑ e non furono molti ‑ dalla donna in agonia non uscì mai una frase, una parola, che avesse senso, per quanto le sorelle la incalzassero. Finì che quest'ultime alzarono le spalle e s'i rassegnarono alla strana situazione. Perché l'essere umano è, tra gli esseri viventi, il più adattabile alle circostanze.

Così, quelle che sarebbero diventate due signore così compunte e bacchettone da arricciare il naso scandalizzate per un velo lasciato scivolare a bella posta durante la messa allo scopo di mostrare ai più i prodigi dell'arricciacapelli, in un giorno lontano della loro giovinezza decisero di prendere con sé la sciagurata creatura, la figlia della colpa. E lungo tutto il resto della loro vita si occuparono della nipote con una dedizione che sconfinava nella devozione.

Per tutti gli anni che ebbero ancora a passare su questa terra ‑ e i loro furono davvero tanti ‑ lavorarono nella piccola bottega dei padre rinunciando a tutto ciò che avrebbe potuto distoglierle da lei: matrimonio, figli e una vita agiata ail'ombra di un marito benestante, come in fondo avrebbero meritato.

Quando uscirono dall'ospedale con la bimba in braccio, senza sapere di preciso dove andare, era il 5 novembre. I giornali strillavano: "Da ogni parte d'Italia giungono dimostrazioni di giubilo che, cominciate domenica, si sono protratte in tutta la giornata di ieri. L'entusiasmo è ovunque indescrivibile: lunghi cortei con musiche in testa percorrono città e paesi al suono degli inni nazionali. Il popolo italiano vibra di entusiasmo e di commozione come non mai. Viva l'Italia".

La guerra era vinta,

La fulminea, arditissima avanzata del 29' corpo d'armata SU Trento..l’irresistibile slancio della 7^ armata, e quello non meno glorioso della 12^, dell'8^ e della 10^ sul Brenta, della 1^, della 6^  e della 4^  ad oriente hanno determinato lo sfacelo totale del fronte avversario…

 

Mi hai sempre chiesto il perché del tuo nome, dove fossi andata a pescarlo, così patriottico e altisonante, io, aliena come sono da qualsiasi retorica, da qualsiasi magniloquenza. Ora lo hai capito: Italia Vittoria è un omaggio a quell'esserino che le zie, alle quali faceva difetto la fantasia, vollero chiamare così. Ma chissà che quel nome non le sia stato utile ad affrontare il mondo, a superare le difficoltà, i momenti di sgomento e quelli di sconforto di cui la sua vita non è stata di certo avara. E così vorrei che fosse anche per te, perché tu impari a non arrenderti alle vittorie come alle sconfitte, a quell’ impasto di Caporetti e di Vittorioveneti che è la vita.