Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

IX edizione - Arcade, 5 gennaio 2006

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Primo classificato

I LUPI DI NOSHAQ

 

di Stefania Maione

Napoli

- Non sparare, quello è un… c’è un uomo là in mezzo! – mormorò incredulo Filippo Marchesani afferrando il polso del giovane Akim; questi, imbracciando il fucile, si preparava a far fuoco in aria per scacciare, senza far danni, un piccolo branco di lupi grigi discesi dalle quote medie del Noshaq in cerca di cibo. Si erano fatti vivi in sparuti gruppi per tutta la settimana: arrivavano con il favore del buio e si aggiravano guardinghi nei pressi del campo di accoglienza, evidentemente per studiare la situazione e definire il miglior punto di attacco. Il bersaglio era evidentemente il pollaio con un gallo e dodici galline di grossa taglia, alle spalle del corpo principale del campo. Il dottor Marchesani non poteva concedersi il lusso di perdere anche uno solo dei suoi animali, in quel momento; e doveva difendere gli abitanti della sua comunità, scampati alla morte e venuti a cercare una nuova difficile vita in quella tranquilla oasi di pace in terra di guerra, all’ombra del grande Noshaq. In meno di un anno dal suo arrivo, aveva lottato per riuscire a cambiare faccia ad un luogo in cui si respirava angoscia ed erano ancora profondi i segni raccapriccianti lasciati da quella maledetta guerra, in cui non era esistita regola, né etica, né morale più che in qualsiasi altra guerra conosciuta dagli uomini; il dolore era nell’aria, impregnato nel legno umido delle costruzioni, nel crepitio del fuoco che accendevano di notte, era nel buio e nella luce, nel giorno e nella notte, nell’acqua e nel cibo. Aleggiava sul campo di accoglienza. Strisciava. Respirava. Vivo come una creatura mostruosa, opprimente, nascosto dietro un velo negli occhi di tutti. Filippo Marchesani era stato accolto dagli altri volontari con il calore che unisce gli uomini quando prendono coscienza della propria debolezza di fronte agli eventi incontrollabili. Era stato subito accettato come uno di loro, per quanto fosse difficile il suo ruolo di capofila al posto di un altro uomo, ormai non più tra i vivi, la cui drammatica sorte aveva suscitato lo sdegno, la rabbia e la pietà dell’intera comunità internazionale: la storia e le immagini dell’uomo in gabbia avevano viaggiato nell’etere, sulla carta stampata, attraverso i chip di milioni di computer del mondo, nelle ramificazioni infinite della grande rete virtuale che annulla le distanze. Poi più nulla. Le minacce ed i video agghiaccianti, con cui i soldati di Al Qaeda avevano parlato all’occidente, si erano interrotti improvvisamente e, al loro posto, un silenzio dal suono sinistro aveva raccontato al mondo l’impossibilità di salvare una vita. Perfino al campo di accoglienza – dove quell’uomo aveva portato la forza ed il vigore dei suoi giovani anni e la folle determinazione a costruire vite normali a dispetto dei bombardamenti e della miseria – non si parlava più di lui, come se tacere equivalesse a scacciare il pensiero drammatico della sua tragica fine ed in qualche modo, così, a negarla.

Filippo Marchesani era arrivato al campo, armato della medesima determinazione e della stessa forza che aveva avuto il suo predecessore: portare vita in terra di morte; era venuto a combattere per superare gli orrori della guerra e, fino a quel momento, pensava di aver visto davvero tutto ciò che è possibile vedere ad un uomo, prima di perdere la ragione e la voglia di appartenere al genere umano: violenza, malattia, fame, disperazione, ignoranza, discriminazione. E prima ancora teste mozzate, bambini senza più braccia o gambe, corpi di soldati le cui salme giacevano sulle strade sterrate, esposte e profanate dalle mosche e dal sole impietoso della mattina. Ma quell’uomo nudo, in mezzo ai lupi del Noshaq, che muoveva la testa, guardingo, e strizzava gli occhi come i suoi compagni di caccia, nascosto dalla penombra di una qualunque notte di luna piena, pareva un disegno in bianco e nero strappato da un libro di leggende indiane piuttosto che un’immagine reale, dai contorni netti ed immobile lì sotto i suoi occhi. La piccola folla degli abitanti del campo di accoglienza si strinse incredula attorno al giovane medico italiano e questi distese le braccia, con le mani aperte ed i palmi rivolti indietro, un po’ per proteggere la sua gente un po’ per impedir loro di avanzare. Poi, fattosi coraggio, mosse un paio di passi incontro all’uomo, cautamente, per non spaventare i lupi e spingerli così ad attaccare: ricordò la voce tagliente di suo nonno, caparbio montanaro, impregnata di vino rosso e tabacco buono, che gli insegnava, da bambino, che i lupi attaccano l’uomo soltanto se molestati. Ed infatti il capo branco avanzò a sua volta verso di lui, scoprendo i denti con un ringhiare sommesso, un richiamo di allerta appena percettibile che lo avvisava di stare in guardia; Filippo tese una mano all’uomo del Noshaq, mentre avanzava verso di lui: nonostante questi si muovesse carponi, gli sembrò dovesse essere alto circa un metro e ottanta; aveva chiaramente lineamenti occidentali, perfino eleganti, nonostante la barba incolta ed i capelli scarmigliati. I due si guardarono negli occhi solo quando furono a pochi centimetri di distanza; l’uomo del Noshaq si sollevò a forza sulle ginocchia, mostrando senza umana vergogna la sua nudità. E prese la mano che l’italiano gli tendeva.

In quel momento Kalima, vestita ormai in abiti occidentali, usciva dalla costruzione bassa che avevano adibito ad infermeria; si fermò per un attimo, attonita, guardando quell’uomo col cuore che batteva a mille e gli occhi pieni di pietà e lacrime. Poi corse avanti, con slancio, portandosi alla bocca le belle mani lunghe, tatuate all’Henneè sui palmi: lo aveva riconosciuto. Senza alcuna ombra di dubbio…

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Pare fosse un bell’uomo; un bell’uomo venuto da una città di mare: missione di pace in Afghanistan. All’inizio gli era sembrato impossibile abituarsi alla presenza severa della montagna, il grande Noshaq, lì alle spalle del campo di accoglienza; gli mancava il senso di infinito a scuotergli l’anima davanti al mare, ogni volta che se ne restava da solo, seduto sulla scogliera, a pensare. Ma la guerra cancella ogni nostalgia e leggerezza con l’enorme gomma della necessità di sopravvivere.

Si innamorò di Kalima quando ancora le loro vite scorrevano adagiate sullo sfondo dei bombardamenti americani; la amò senza mai averne visto il viso ed immaginandone forme sinuose nascoste dietro le pieghe troppo ampie del suo vestito nero. Scoprì che si può amare una donna perfino attraverso lo spazio ristretto di una feritoia sottile, aperta sull’immobilità nera di un involucro informe, che scopriva alla vista soltanto gli occhi, ma si spalancava come una voragine sprofondandolo nel miele caldo dello sguardo di lei, ogni volta che incrociavano gli occhi. Lei parlava soltanto la sua lingua, una melodia sommessa accordata sui toni dolci di un’infinità di impronunciabili H, fatte piovere come gocce di brina in novantanove parole su cento. Lui le parlava in cinque lingue diverse e ridevano, ma finivano col capirsi soltanto con i gesti. Si innamorarono delle rispettive differenze, delle loro dissonanze e delle distanze incolmabili di lingue e culture, splendidamente colmate, invece, dalla normalità di riconoscersi semplicemente come un uomo ed una donna. Lei gli si concesse senza pensare troppo alle conseguenze, forse perché la guerra ridimensiona le questioni umane e certi dogmi della propria morale, mostrando con crudezza l’evidenza: che ogni giorno è l’ultimo giorno e tutto ciò che non è oggi non sarà, perché potrebbe non venire mai domani. La prima volta che fecero l’amore, lui ebbe la sensazione di violare un tempio sacro, di scivolare come un ladro in una maestosa moschea, severa, col minareto rivolto verso la mecca; ma i respiri di lei erano i respiri di una donna e l’abito nero era scivolato via come un sipario, spalancato su un angolo di normalità, ritagliato a forza tra le pieghe di una vita rigata di orrori. Proprio questo cercava lui, in quella terra, per sé e per l’altra gente: inventare sprazzi di vita normale che negassero il concetto stesso di guerra, soffocando la percezione fisica di uno stato cosciente di perenne di allerta.

Ma poi lo avevano preso, uccidendo ogni illusione di vita avesse mai avuto in quella terra… “i soldati del grande dio dell’islam”, così si definirono nella loro lingua, una cacofonia scordata di rumori, urlati nei toni aspri di un’infinità di impronunciabili H, fatte piovere come spari in novantanove parole su cento… con i cappucci neri calati sulla faccia, i pugnali e le armi, erano arrivati per annientare la sua umanità e negare ogni concetto di paradossale normalità che un uomo potesse mai riuscire ad immaginare in tempo di guerra; catturato come una bestia selvatica, denudato, picchiato, violentato. Umiliato. Chiuso in una gabbia di meno di un metro cubo, in cui riusciva a mala pena a starsene rannicchiato, a mostrare al mondo la sua debolezza. All’inizio, la necessità di sopravvivere a tutto questo gli era sembrata l’unica ragione buona da perseguire; si era adattato a quell’inumana condizione di prigioniero, superando la fame, la sete, l’afrore maleodorante della gabbia in cui giaceva tra i suoi stessi escrementi, costantemente visitato da formiche e mosche… centinaia di insopportabili mosche…

Aveva imparato a riconoscere uno ad uno i suoi carcerieri incappucciati dalla taglia delle spalle, o dal modo di camminare, o da piccoli gesti insignificanti che annotava mentalmente per tenersi desto, per aggrapparsi a qualcosa di vagamente umano che lo deconcentrasse dal riflettere sulla sua condizione. C’era uno che sembrava poco più di un ragazzo; era quello che una volta al giorno gli portava da mangiare: una scodella di ferro, sempre la stessa, con un po’ di riso, fagioli ed un pezzo di pane non lievitato. Lo guardava attraverso le orbite vuote del suo cappuccio nero e mormorava qualcosa di incomprensibile, prima di andare a sedersi in un angolo a sorvegliare la gabbia. La notte ed il giorno rotolavano una sull’altro senza differenze, in un tempo aritmico di istanti interminabili, che si fermava sull’orrore assoluto quando registravano i video per mostrare al mondo la sua vita ingabbiata, e lui si immaginava il suo corpo nudo viaggiare nell’etere, esposto agli occhi ed alla pietà della gente. Era quella l’umiliazione più grande: l’annientamento del rispetto per se stesso. E, lentamente, prese a togliergli ogni desiderio di andare avanti e sopravvivere, giacché sentiva di non avere più nulla di umano, se non vergogna, miseria e avvilimento. Talvolta, lo tiravano a forza fuori dalla gabbia in cui era incastrato, lo afferravano per i capelli e lo obbligavano ad implorare il suo paese di salvargli la vita, davanti alla telecamera con quella luce verdastra che gli feriva gli occhi, ormai più avvezzi al buio che non alla luce. E gli premevano sulla gola un enorme coltello, dalla lama assai tagliente, che pareva volessero tagliargli la testa in quel momento. Lui pregava lo facessero ed il cuore gli batteva in gola, agognando un colpo secco che gli portasse via la vita ed i pensieri; ma i soldati di dio lo richiudevano in gabbia, mentre il nastro si riavvolgeva nel triste rewind di ciò che riprende a scorrere al contrario, identico a sempre. Poi una notte, inaspettatamente, il ragazzo che portava da mangiare arrivò davanti alla gabbia e si tolse il cappuccio nero: la aprì e lo tirò fuori, faticando a trascinare il corpo fino alla porta della baracca sperduta tra le conifere del Noshaq; lo trascinò fuori, sulla terra umida che odorava di buono e mormorò “Go! Go away!” in un inglese strano, appena un fiato, che parve l’urlo universale di un gesto di umana pietà. Poi sparì di corsa tra gli alberi fitti e carichi di foglie. Lui rimase da solo, annaspò sulla terra che gli si addensava sotto le unghie. Non riusciva a camminare e strisciava sulla pancia per allontanarsi dai luoghi della prigionia, prima che potesse. Ebbe pietà di se stesso, spogliato com’era fin dell’ultimo brandello di umanità; respirava a fatica per lo sforzo prodotto da movimenti cui non era più abituato, e giaceva con il viso premuto in terra e la terra gli entrava in bocca a ricordargli che era vivo. Allora sentì qualcosa di umido soffiare sulla sua spalla e si voltò istintivamente di scatto, spaventato; i suoi occhi incrociarono quelli gialli, dalle pupille sottili come fessure, di un lupo grigio, un lupo del Noshaq: il lupo che gli salvò la vita, conducendolo alla fonte dove bevve, ingordo, tutta l’acqua che potè inghiottire; Il lupo che lo accolse nel branco, mentre la montagna si richiudeva su di loro per nasconderli agli occhi degli uomini.

Lo stesso lupo, una notte, lo accompagnò all’unica specie di casa avesse mai avuto in terra di guerra.

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Lo avevano portato nell’infermeria del campo di accoglienza e gli avevano preparato da mangiare: minestra di fagioli e peperoni verdi; ma nessuno aveva insistito perché mangiasse, o si lavasse o parlasse. Filippo Marchesani pensava che qualunque cosa avesse vissuto quell’uomo, c’era bisogno di tempo perché dimenticasse. Se ne stava in terra, avvolto in una coperta di lana color tabacco, e respirava piano con lo stesso ritmo dei lupi che si erano radunati in cerchio attorno al campo, in guardia. Kalima entrò e gli sedette accanto, dividendo con lui il silenzio di quegli strani momenti; rimasero così tutta la notte, svegli, bagnati dai raggi liquidi di una debole luna che pareva fatta di cristallo. Mancava poco all’alba quando lui mormorò qualcosa, poche fragili parole, articolate a fatica, che sembrarono venire da troppo lontano, dal mondo perduto della sua umanità rubata:

- Ci vuol tempo per accettare l’idea di essere  un uomo… -

I lupi del Noshaq, coi musi rivolti in alto verso la grande montagna, ulularono tristemente alla luna, accompagnando in controcanto i toni taglienti di quella voce amica.