Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

X edizione - Arcade, 5 gennaio 2005

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

OPERATORE K

 

di Manuel Righele

Malo (VI)

Con passo lento, ma deciso s’immerga nella notte e scompaia. Tra queste urla che dileguano dai camminamenti, si perda la sua contrizione e i lamenti, che riecheggiano tra gli anfratti del Monte Ortigara, celino il suo intento.

Lo sfacelo della rovinosa distesa s’abbarbica contro un orizzonte perduto e appresta uno scenario cupo al prodigio che infuoca questo teatro di morte, alla guerra che tesse trame e reticoli. La sua ferita fiotta indocile, ma lei sa bene che non sarà per quest’inezia che la verranno a soccorrere.

Da giorni l’implacabile ostinazione del Comando seguita a intimare l’avanzata, l’assalto a baionetta, il tributo alla patria, preteso, certo, anche da lei. Salvifiche indecisioni sono state e saranno punite senz’indugiare.

Guardi. L’avvallamento che s’affaccia a picco sulla Valsugana va scomparendo, colmato da cadaveri, su cui, di giorno in giorno, nuovi assalti si ripetono, nuovi cadaveri s’ammucchiano. Certo, se vuole narrarmi gli eventi, l’ascolterò con dedizione.

L’offensiva italiana, dunque, chiamata Operazione K, è iniziata il mattino del dieci giugno. Il XXII Corpo d’Armata, comandato dal generale Negri di Lamporo, doveva superare i monti Zebio e Mosciagh, raggiungendo il versante orientale della Val Galmarara, mentre il XX Corpo, comandato dal generale Montuori, aveva il compito di sfondare quassù a nord, in direzione Forni e Ortigara.

Capisco. Le truppe alpine dell’8° gruppo, e quelle del 9°, con audacia e gravi perdite, hanno conquistato gli avamposti austriaci a Quota 2.003. Precarie, sull’erta dell’altipiano, come sul crinale della vita, hanno poi aggirato le difese nemiche e si sono arrampicate sin qui, Quota 2.101.

Ora solamente quattro metri la separano dalla vetta, solamente quattro metri dividono i due eserciti. Certo. Le pare artificio innaturale quest’etica della guerra, questo starsene addossati al nemico, senza soccombere alle paure, attendendo ancora un ordine che decida se s’ha da vivere o morire. Quel che sarà, perlomeno, non è responsabilità che peserà su di lei. Altri decideranno per suo conto e non correrà certo il pericolo d’attardarsi al sacrificio.

La tregua è una veglia senza fine, smarrita in un odore stantio, e l’aria madida rende immanente la ferocia d’avventori minacciosi. In questo girone, dove ogni umanità è violata, l’ignoto che la sovrasta dissolve ogni abbandono, ogni rassegnazione.

Se guardasse appena sopra di lei, un po’ discosto sulla destra, potrebbe scorgerne uno di questi suoi temibili aggressori. E’ un cadetto dei kaiseriäger. Lo vede. In quest’ora che s’ostina greve, negli occhi di lui v’è un’ombra scura, di minaccia o di supplica e, inebriato dalla stanchezza, il suo sguardo penetra laddove la luna rischiara e confonde, nella speranza di non dover incontrare un altro sguardo in cui il suo si rifletta.

Ecco! s’è accorto di lei e ha imbracciato il fucile. Le sparerà senza un pensiero, non è una vicenda d’uomini, ma di soldati e, come s’impara, un soldato uccide o perisce. Ho visto. Il percussore è scattato, ma non s’è udita detonazione. Forse l’arma s’è inceppata, forse le munizioni non sono bastate, forse questo puntarle contro un ferro inutile al suo nemico sarà sembrata l’estrema difesa.

Ora, impaurito e attonito, attende il colpo che da lei ha da venire, ma lei non vuole sparare. Capisco, una latta che le calca la fronte, una divisa e un fucile non fanno di lei un soldato e men che meno lo è il cadetto che le sta dinanzi, senza più un’arma, senza un’intenzione.

Anche lei, però, ha ucciso, con violenza, con efferatezza, pieno di terrore, ed ora non può starsene lì come un inerme. Dimenticavo, nella furia della battaglia non ha avuto tempo d’avanzo per concedere ascolto al dubbio, né spazio ai pensieri. Solo ora, percorrendo con lo sguardo il fronte del Monte Interrotto, ascoltando salire nell’oscurità, dalle trincee austriache, l'impudico delirio degli spiriti inquieti, queste strane idee insorgono improvvise, inadeguate per chi come lei non è che un semplice fante.

No, questa disperazione non è dissimile dalla sua. Sia testimone. Non abbia vergogna di questa brama di ritrosia che le si è rivelata, né si sottragga a quest’angoscia. Almeno in essa s’accomunano gli uomini al di qua e al di là della linea. Non può avere sentore dei soldati che dallo Zebio sono sin qui schierati, sul Monte Colombara, sul Monte Forno, sul Monte Chiesa e sul Monte Campigoletti, ma di questo austriaco, che lei ha voluto chiamare Franz, di questo sente il dolore e l’avidità d’una pur effimera quiete.

Nel massacro che si sta compiendo, la fortuna che le è toccata è inconsueta e sarebbe anche buffa se solo ci fosse qualcuno con cui condividerla, ma quest’episodio farsesco è di soldati, d’un austriaco e d’un italiano e lei non sa se vi sia un codice, un decreto, un editto, una semplice consuetudine che disciplini ciò che è risibile e ciò che invece non lo è. Ad ogni buon conto, è certo che non le è giunto ordine d’avanzare, né di indietreggiare, né tanto meno le è stato ordinato di ridere, per di più con il nemico.

Cosa fa? Mi permetta di dissentire, anche se, infatti, riflettere non è contemplato tra i suoi incarichi, è mia premura farle notare che questo gesto di tendere la mano che lei ora ha approntato è quanto mai irresponsabile, sconsiderato e sciocco. Altri potrebbero rilevare la sua posizione e senz’esitazione decidere della sua sorte. Cosa crede di fare? Già, la livida presenza di migliaia di volti, che la fissano con occhi spalancati e vuoti, le impongono il silenzio, ma anche se non è tempo né luogo per dileggio alcuno, vorrebbe almeno rassicurare Franz.

Lei è di Asiago e qui si sente a casa. Vede, l’intraprendenza è sempre una colpa che s’espia, sarà dunque questa la sua guerra, tutta in questo tendere la mano ad un uomo e pagare l’ultimo tributo che la vita vorrà riscuotere.

C’è chi combatte per il proprio ideale, di questi tempi sembra essere la patria, c’è invece chi è dell’avviso che non vi sia altro ideale se non quello che non si debba combattere, c’è poi chi, come lei, non è di questi e non è di quelli, perché gli uomini non si tracciano come confini, né s’arrendono mai. Le duole ora il capo, più della ferita, ma in questa concettosità per cui non trova rimedio, ci tiene a dire che, pur non sapendo come si chiami, anche lei ha un ideale ed ha il volto di sua madre, il profumo dell'erica, il vigore di Antonio, il calore del pane appena sfornato, gli occhi immensi di Marta, la sua pelle serica, ma anche se per questo ideale è pronto a morire, non è ancora certo di voler uccidere.

In fin dei conti, è la sua parte ad essere venuta meno a certi accordi, pertanto, non soltanto è lei ad essere aggressore, ma è anche latore di tradimento e menzogne. Confessi, dunque, che anche se dovesse compiere ogni sforzo, le sarebbe difficile rinunciare a questo ritegno verso il nemico e liberarsi dell’imbarazzo che le crea il sapersi oppressore e non oppresso.

Lei è di casa, si diceva, se deve morire lo vuol fare senza rinunciare a se stesso. Sia dunque ospitale. Certo, suo padre l’esorterebbe. “Ostia. Daghe da bevare”1. Per dissolvere, dunque, questo terrore diafano, quest’immobilità, anche se non ha del vino, offra una sigaretta. Provi. Doni un volto alla notte imperscrutabile. Doni un’anima al suo nemico.

Così ha teso la mano e allungato la sigaretta, ma, impietosa, l’oscurità maschera insidie e crucci, senza dare adito alla comprensione e quel che da qui sembra, senza certezza alcuna, è che il momento colga Franz sconcertato e avvinto.

Ha ben di che sorprendersi. Lei non avrebbe piglio migliore nell’accettare inattese profusioni, ma guardi, ha scelto di non diffidare e le sta facendo cenno di lanciare. Calibri la distanza, calcoli l’inclinazione, ponderi la forza, altre volte ha onorato quest’azione da belligerante, ma diverso è il proietto che s’appresta ora a scagliare, tanto più peserà sugli animi quanto meno grava ora tra le sue dita.

Il lancio è avvenuto. La sigaretta è giunta a destinazione. Ascolti. Le ha detto grazie per questa umile libagione, per questo calumet d’una pace privata che non ha in sé la forza per cambiare gli eventi, ma già è bastata a cambiare due uomini.

Certo, parla Italiano. Lei non lo sa, ma il cadetto kaiseriäger non si chiama Franz, bensì Matteo Bruschin. E’ di Lavarone. Vi siete anche scambiati un cenno di saluto, in una domenica qualunque, alla locanda che sta in fondo al paese, senza sapere l’uno chi fosse l’altro. Sì, sono luoghi della memoria, come quel Monte Ortigara che lei conosceva quando non era ancora cominciata questa guerra, che meno appare epica, quanto più i pidocchi s’annidano nella carne, la fame morde il ventre, le vesciche lacerano i piedi e il sonno non conosce riposo.

Non può lenire certe ferite il gesto d’uno sconosciuto, né può dare speranza un uomo che tenda una mano e celi nell’altra il fucile. E’ dunque in quest’ora tarda che il valico le ha indicato la via, quando, al languire della battaglia, gli ordini si sono attardati e il dolore è divenuto circoscritta rivendicazione d’esistenza.

No, non sarò certo io a fermarla, sono decisioni che ancora le appartengono, ultime intimità che la distinguono, folclore di questa guerra di trincea, guerra di logorio, come si chiamerà.

Saluti Franz, non sa se vivrà così a lungo da sentirne la mancanza, sia ad ogni modo gentile con chi le ha dato fiducia. Raccolga le sue forze, stringa la benda attorno alla ferita e poi via con un balzo sul limitare del terrapieno. Abbandoni il fucile, poco male, d’ora in avanti non sarà più mestiere che la riguardi.

Nell’aria vibra un sibilo, caparbio, che sembra provenire da molto lontano. Stia attento agli shrapnel, si stringa contro quella roccia. Al disertore non è chiesta l’audacia. Aspetti la deflagrazione. Ecco, non è ancora il suo momento. Sia ora celere il suo passo, attraverso le tenebre, attraverso il reticolo, attraverso il Passo dell’Agnella. Via per l’avvallamento disseminato di corpi esanimi.

Nessuno conosce il loro nome, non sia crudele con se stesso.

Ha ragione. I morti si contano alla fine. Forse allora trovano un nome. Certo quest’aspetto quantitativo è più simile a mercimonio, ma la 52ª divisione alpina tra morti, feriti e dispersi, lascerà sull’Ortigara 12.633 soldati e anche solo contarli, se pur non potrà restituire loro l’identità perduta, sarà innegabile dovere di chi ancora è in vita.

Da qui riesce meglio a vedere che, dalla bassura in cui ora si trova alla cima dell’Ortigara, il dislivello è andato saziandosi dei corpi dei caduti. Là sotto c’è anche suo fratello e lui un nome ce l’ha. Si chiama Pietro.

Non desista, non sia incline a facile commozione, fin quando non avrà raggiunto la carrettiera o non l’avrà raggiunta un proiettile continui a correre. Così vorrebbe suo fratello, che a questa storia della patria non ha mai dato peso. Le direbbe d’andare a casa, di badare a Marco che è orfano di padre e ad Anna che il marito ha perduto, di non lasciar seccare oltre il fieno sotto il sole di giugno, d’aiutare il babbo a sollevare il peso che gli anni portano alle fatiche e ricostruire la casa, la vecchia casa incrinata dai colpi di forte Luserna. Quanti pensieri si fanno in un instante, quanti ricordi rivivono.

Da quando è giunto sull’Ortigara, ogni giorno ha dovuto correre, all’assalto o in ritirata, ma mai come ora correre le ha dato questa folle eccitazione, quest’infantile illusione di libertà.

Un flebile chiarore arancio le è tremolato improvvisamente accanto e ha deformato il terreno. Dopo lo schianto e qualche secondo d’incoscienza, si ritrova riverso sul dorso e le stelle che ora le appaiono dissolvono ciò che prima apparteneva all’ignoto. Le nubi diradano e sente l’alito freddo della valle vergare le alture e pervaderle le viscere. Ripieghi la mantella intrisa, non guardi dove più forte sente il dolore. La granata le è esplosa vicino e l’ha precipitata giù per il pendio.

Non si dimeni, se ne stia buono ad aspettare, questa volta la verranno a prendere. Se ne stia lì disteso come nelle sere d’estate a naso in su. Guardi che luna risplende stanotte. Non c’è uomo più solo di chi corre in una folla urlante, diranno, non v’è esilio più amaro di chi in solitudine muoia. Non abbia paura. Se la memoria di questa sua ultima battaglia fosse raccontata, sarebbe forse retorica, ma lei vive ora il suo coraggio.

Dica che la morte non è il peggiore dei mali. Dica che le mancano gli anni che non vivrà, le corse in discesa, la risata di Pietro, la pioggia rovescia, tutto ciò che mai ha avuto, tutto ciò che ha sognato, ciò che è stato e rimarrà. Dica che questa guerra l’ha uccisa quando è iniziata e nessuno dubiti che il suo non sarà né il primo né l’ultimo degli addii.

 

La notte del 24 giugno 1917, a Quota 2.105 sul Monte Ortigara, incontrai un uomo di cui il nome ancora ignoro e il cui coraggio sempre porto dentro.

 

Cadetto Kaiseriäger Matteo Bruschin.

 

1 Daghe da bevare - Dialetto dell’Alto Vicentino: Offrigli da bere