Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

X edizione - Arcade, 5 gennaio 2005

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

AL PRIMO ASSALTO

 

di Gianmauro Comazzetto

Cornuda (TV)

“SantaMadonna, guarda qua come sono combinato, alla tua età saltavo i fossi in lungo e adesso, se non avessi questo…” e alzava il bastone scotendolo, ridacchiando un poco rauco “ ormai, caro Mauro, senza questo non andrei più da nessuna parte, altro che saltare fossi…”.

Ero andato a fargli visita prima di partire per fare il soldato.

Lui era il nonno alpino, Cavaliere di Vittorio Veneto, il nonno che aveva fatto la guerra e per me che ero il suo primo nipote aveva una predilezione, a me aveva raccontato moltissime volte le sue storie di guerra. Mi piaceva perché ogni volta che raccontava lo vedevo infervorarsi, quasi a tornar giovane, e gesticolava agitando le mani nodose come a brandire un’arma. Il racconto scorreva semplice, il nonno non aveva un grande vocabolario, era tutto molto facile e comprensibile.

“Ero sul Carso……,  mi avevano mandato a L’Aquila col mulo……, si tornava a casa dopo Caporetto.” Così, molto semplicemente, ma a me, quando ero bambino piaceva sentir parlare di guerra, delle battaglie, immaginavo i rumori degli spari, le lotte e poi il nemico sconfitto, la vittoria.

Io non ero più un bambino, così lui mi raccontava la guerra vera, quella che fa morire di paura.

La paura, sì, quella mi raccontava, il terrore cieco, mi parlava di quell’orrore che non aveva dimenticato e che a distanza di settant’anni ricordava intatto.

Mi raccontava di quello che facevano per vincerla, la paura, di tutto l’alcol ingurgitato per stordirsi, per poter affrontare l’assalto.

“Cosa vuoi, quando mi arrivò la cartolina per partire soldato sembrava che la guerra sarebbe finita dopo poco, avevo già due fratelli al fronte e mia mamma, povera donna, era già disperata così, e al pensiero che partissi anche io che ero il più giovane e il più piccolo di tutti per poco non impazziva………

Mi insegnarono a sparare, col moschetto, a usare la baionetta. Imparai anche a leggere e scrivere.”

Mi aveva detto tutto questo stando in piedi, ben diritto, appoggiato al suo bastone. Poi si sedette sulla poltrona, si tolse il cappello che gli lasciò un’aureola di capelli schiacciati intorno alla testa e lo appese allo schienale di una sedia. Posò il bastone sul bracciolo della poltrona e si tastò le tasche cercando la pipa.

Mi sedetti anch’io, presi dal taschino le sigarette e gliene offrii una. Mi piaceva fumare assieme al nonno, lui si gustava le sigarette, assaporando ogni boccata di fumo; aveva sempre fumato tabacco da poco prezzo, forte e aspro e le mie sigarette, saporite, gli piacevano quasi più della pipa, sua grande passione.

Mentre portava la sigaretta alla bocca si guardò la mano e sbottò “Guarda qua che mani, mi sembra di essere una donnetta, io ho sempre avuto i calli perché ho sempre lavorato tanto con queste mani, e adesso guarda, bianche, belle, morbide, mah….” aspirò profondamente il fumo che riuscì con uno sbuffo azzurrino in un turbinio di mulinelli reso più evidente da un sole di maggio che filtrava potente dai vetri delle finestre.

“Ne ho conosciuti tanti sai, tanti ragazzi e tanti di loro sono morti, morti allora intendo. Adesso chissà quanti di quelli che ce l’hanno fatta a tornare come me sono ancora vivi, perché non tutti saranno arrivati a ottantasei anni, lo sai vero che ho appena compiuto ottantasei anni.”

Mi ripeteva spesso l’età, come a cercare conferma, quasi in attesa che gli dicessi che sì, che era vero e che in effetti non molti dei suoi commilitoni potevano essere ancora vivi. Gli piaceva, per un volta, sentirsi un privilegiato.

“Se ci mettono tutti assieme, noi reduci, saremo sì e no una brigata, macchè, un battaglione, forse due……..Ma ti stavo raccontando di quando ero soldato.”

Scosse la cenere colla punta del mignolo dentro al posacenere che gli stavo porgendo e stringendo un poco gli occhi come a riordinare le idee riprese,

“Mi volevano bene sai al battaglione, tu non sai cos’è un battaglione ma lo imparerai, comunque è il tuo reparto, è comandato da un colonnello, pensa che mi ricordo ancora il mio colonnello, era abruzzese ed era  enorme, grande e grosso,  con due baffoni arricciati, aveva una voce che quando ci parlava vibravano i vetri delle finestre, però era tanto buono, il migliore alto ufficiale che abbia mai conosciuto, so che morì qualche settimana prima che la guerra finisse, qua vicino, sul Montello una esplosione, forse una mina, chissà, non ricordo bene…, sì, forse era una mina.”

La sigaretta era arrivata alla fine, la guardò attentamente, era assorto nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, gli porsi il portacenere e lui ve la schiacciò dentro.

“Dopo me ne dai un’altra”.

Tossicchiò leggermente come per schiarirsi la voce, “Sì, al reparto tutti mi volevano bene, mi avevano soprannominato “il bambino”  perché ero piccolo”.

Prese la pipa, dalla tasca del gilet estrasse il nettapipa, apertolo cominciò a grattare con calma il fornello. Aggrottava la fronte come a cercare nella memoria altri pensieri, altri ricordi.

Rovesciò il contenuto della pipa nel posacenere.

Gli passai la tasca di cuoio col tabacco, mi fece solo un cenno con gli occhi come per ringraziarmi e con gesti lenti e sistematici iniziò a caricare la pipa premendo nel fornello piccole prese di tabacco.

“Anche a fumare ho imparato da soldato. Sai, era un passatempo,  del resto il tabacco non ci mancava, o per pipa o per sigarette, non mancava mai, anche perché spesso era parte della paga e così tutti fumavano , così, tanto per fare qualcosa e per darsi un’aria da “veci” .”

Ridacchiò mentre portava alla bocca la pipa, con una fiammifero la accese e la stanza si riempì in breve dell’odore del fumo di quel tabacco forte.

Spense il fiammifero agitando la mano tra ampie volute di fumo azzurro.

“Sì, sì, caro Mauro, anche col tabacco ci pagavano. Finito il mese di addestramento ci mandarono in licenza premio, due giorni. Io, come tutti, ero felicissimo anche perché avevo una gran voglia di rivedere mia mamma, non ero mai stato lontano da lei per così tanto tempo e lei… poverina, mi voleva così bene…ma tanto sai. Pensa che le avevo anche scritto una lettera, solo che le poste non funzionavano tanto bene e così la lettera arrivò quando io ero già rientrato dalla licenza, ma non importa, lei era contenta perché il suo Nino aveva anche imparato a scrivere. Povera mamma, chissà quanto aveva sofferto, con tre figli al fronte.”

Riaccese la pipa che nel frattempo si era spenta.

 “Quando tornammo nella nostre camerate, per la prima volta, dopo il battesimo del fuoco ci sentivamo degli eroi, ed eravamo tutti esaltati. Un caporale di fanteria che era là da sei mesi ci guardava con aria di compatimento; aveva il letto vicino al mio e così cominciammo a parlare. Io, dopo quella prima azione durante la quale avevamo sparato qualche colpo di mitragliera contro le linee nemiche, gli dicevo che tutto sommato la guerra non mi pareva poi così male. Lui mi ascoltava quasi distrattamente e ad un tratto mi disse – Al primo assalto, ricordati, al primo assalto, solo allora capirai cosa è la guerra, solo quando avrai invocato tutti i santi del paradiso, allora capirai, ricordati, al primo assalto, e si girò per dormire.

E quando iniziarono gli assalti, allora capii.

Anche se vivessi altri cento anni non riuscirei a dimenticare la paura di quel momento.

Dovevamo saltare fuori dalle trincee e andare verso i reticolati, verso le posizioni nemiche e quelli ci sparavano con tutto quello che avevano, ci tiravano bombe, gas, ci bruciavano con dei lanciafiamme che sparavano benzina infuocata. No Mauro, te lo garantisco io,  quando hai fatto questo una volta e l’hai scampata non te lo dimentichi più, non vorresti più rifarlo, ma noi dovevamo, io l’avrò fatto almeno cinquanta volte.”

Tacque per qualche minuto, assorto mentre fumava piano aspirando con brevi tirate la pipa e sbuffando il fumo da un lato della bocca.

“Loro lo sapevano, lo sapevano bene i comandanti che dopo un assalto saremmo scappati tutti , vorresti scappare e così all’interno delle linee nostre, proprio dietro di noi, c’erano i carabinieri pronti a catturare i disertori che dopo, di solito venivano fucilati, quanti, quanti…c’era anche uno da Caonada, poverino, aveva la mia età, i capelli rossi e piangeva, lo trascinavano verso un albero per legarlo, urlava, chiedeva perdono, ma loro niente: fucilato. Doveva servire da esempio, capisci.”

Fece un’altra lunga pausa, la commozione al ricordo di quel ragazzo lo aveva fermato.

“Loro lo sapevano che avremmo voluto scappare e così ci davano da bere prima degli assalti, e  noi  sapevamo che c’erano gli assalti perché ci davano da bere, bevevamo grappa, tanta, forte, tanta da ubriacarti, così -   pensavano loro – il soldato non ha paura e diventa coraggioso.

Solo così  riuscivamo a saltare fuori dai nostri ripari e andare all’assalto.

In prima linea eravamo amici, tutti amici, quando dividi così lo stesso destino, quando rischi la vita e ogni giorno potrebbe essere l’ultimo ti aggrappi a tutto. Io scrivevo alla mamma, le dicevo che tutto andava bene, non le raccontavo degli assalti, le dicevo che mangiavo tanto, che ero ingrassato e contento e che avevo tanti amici. E quest’ultima cosa  era vera sai, tutti mi volevano bene, anche il tenente che era piemontese, uno grande e grosso, anche lui mi voleva bene e mi chiamava anche lui come tutti “il bambino”, quante risate col tenente.”

Guardavo il nonno che ora rideva, con la pipa in bocca e lo sguardo assorto, mi faceva tenerezza. Lui era basso, era proprio piccolino, aveva fatto il soldato solo perché il re, Vittorio Emanuele III° era praticamente un nano e così l’esercito aveva dovuto abbassare la soglia minima della statura dei soldati; col limite precedente mio nonno non sarebbe stato arruolato. Così, invece, aveva fatto il servizio militare e la guerra, in un mondo di giganti, lui così piccolo mi parlava sempre di questo o di quello e tutti, immancabilmente, erano grandi e grossi.

Io stesso che arrivavo a malapena al metro e ottanta gli sembravo altissimo.

“E dopo venne il giorno, sì insomma, il giorno che devi fare quello per cui sei là. Fino a quel momento avevo combattuto, avevo sparato, forse avevo anche colpito qualcuno, chissà,  in mezzo a tutta quella calca, con bombe, urli e tutto non si capiva niente. No, non me lo dimenticherò mai, era il  4 settembre 1917. Alla mattina era arrivata la solita razione di grappa, così tutti avevamo capito, dopo qualche ora ci sarebbe stato l’assalto. Quando vedevamo arrivare quello del vettovagliamento con il cestino e le bottigliette della grappa lo circondavamo e ci prendevamo razioni doppie e triple, non ci bastava mai, la paura era troppa.

Ci dettero l’ordine dopo due ore e saltammo fuori dalle trincee come demoni. La postazione nemica da prendere era lontana almeno cinquecento metri con pochi ripari e il percorso era  pieno di cavalli di frisia e reticolati. Di notte i nostri guastatori avevano tagliato tanti  reticolati, ma gli austriaci erano riusciti a stenderne degli altri. Saltammo fuori urlando come matti, anche urlare ti aiuta, sparando caricatori interi e ricaricando in corsa il moschetto.

Arrivato a metà strada mi accorsi che avevo ormai pochi colpi e così innestai la baionetta sul fucile stando riparato dietro a un masso, ricaricai  e ritornai nella mischia sparando. I primi dei nostri erano già arrivati a contatto col nemico anche se molti erano rimasti feriti o uccisi, passai vicino a un ragazzo, un trentino, steso a terra, ferito, che mi guardava spaesato, continuai e mi ritrovai dentro la trincea nemica.

In quel tratto era vuota, nessuno.

Mi incamminai attento, col fucile spianato, verso il centro dell’azione, sentii un tonfo sordo  alle spalle e mi voltai di scatto, un austriaco era saltato dentro la trincea e mi stava puntando il fucile. Sparò ma proprio in quel momento mi ero abbassato e così evitai il colpo. Mi diressi verso di lui di corsa, premetti il grilletto, cilecca, avevo finito i colpi,  anche lui aveva il fucile scarico e stava ricaricando, mi avvicinai ancora e con tutta la forza che avevo gli piantai la baionetta nella pancia.”

Tacque ancora, in mano teneva la pipa spenta e la rigirava tra le dita, vidi una lacrima che gli scendeva sulla guancia.

“Mutter, mutter, mutter. Così, diceva, e io ero là, contro di lui col suo sangue che mi inzuppava la giubba e colava sui pantaloni, sulle scarpe, là, con la mia baionetta piantata nella sua pancia,la mia faccia a  pochi centimetri dal suo viso, stravolto dal dolore, da quegli occhi neri che non scorderò mai più, Diobuono, no che non li scorderò, mai più. Mutter, mutter diceva, sì, DioMadonna, stava chiamando la mamma.

Cosa fai quando hai paura? Chiami la mamma!

Era un ragazzo come me, magari anche lui aveva scritto alla sua mamma, anche lui le diceva di non preoccuparsi. Io lo avevo ucciso, ero un assassino, avevo ucciso un uomo.”

Si fermò….piangendo sommessamente.

Ricordavo che altre volte, quando raccontava della guerra arrivato a questo punto non parlava più per la troppa commozione, ma ora io partivo soldato, ero un uomo e poteva dirmi anche queste cose, sapeva che avrei capito, che quelle lacrime non erano debolezza, ma forza.

“Altre due volte mi è successo, sai,  tre ne ho ucciso, tre uomini, così, all’arma bianca, ma non era bianca, era sporca, sporca di sangue, e io li avevo visti morire; in faccia li avevo visti, così come ora vedo te, e avevano la mia età, erano giovani, come te adesso e di sicuro avevano tutti una mamma che li aspettava, una morosa al paese, e io li avevo uccisi.”

“Quando tornai a casa andai subito da Don Giuseppe, il parroco del mio paese, allora stavamo a Villorba. Volevo confessarmi e lui mi disse che quello non era un peccato perché non potevo scegliere, poteva toccare a me di essere ucciso e quindi in guerra se uno fa il proprio dovere non commette peccato. Insistetti, così mi dette l’assoluzione ma solo per liberarsi di me.

E così caro Mauro questa è stata la mia guerra, ma tu sei fortunato, tu non la farai la guerra…. a proposito, dove ti mandano, alto come sei ti manderanno a fare il corazziere vero?”

“No mi hanno fatto alpino”.

Mi avvicinai  per salutarlo, fuori imbruniva e dovevo andar via, gli offrii un’altra sigaretta.

Posò la pipa spenta sul tavolino e si accesa la sigaretta aspirando con gusto il fumo. Infilò due dita nel taschino del gilet e estrasse diecimila lire. Me le porse… “Ricordati di scrivere a tuo nonno”.