Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale

Parole intorno al fuoco

VIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2003

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

 

Segnalato

 

IL POSTO DI IVANO

 

di Claudio Calvi

Varedo (MI)

 

Intorno alle 11 risuonò un 'esplosione, e il paese guardò in alto, verso le cime. Forse qualcuno sentì un 'ansia leggera. Ma non era la prima volta che la montagna tuonava così. Capitava durante il disgelo. Qualche sasso smosso da una frana che andava a toccare qualche bomba inesplosa. O forse qualche animale, chissà.

 

Guardavamo sciogliersi l'inverno dalle cime, i torrenti che come vene segnavano la roccia e cadevano ad incidere la valle, seguendo le rughe scavate nei millenni da ogni disgelo. "Come fai a stare sempre qui. Solamente qui e vedere montagne, ovunque solo montagne. Il mondo ha tanti posti... " dico a Ivano.

"Sì, ma la vita ne ha uno solo" mi risponde con un tono stupito, come fosse una regola così naturale, da capire. Torno a guardare il torrente che ruggendo corre al di sotto, gorgogliante e violento, eterno forse. E' colorato dai fanghi del disgelo e acceso dei riflessi accecanti del sole. Ivano mi sorride. Sento al di sotto le pietre cozzare violentemente, travolte dalla corrente.

E intanto pensavo ai sassi quadrati che io e Ivano, senza forse neanche sapere il perché, facevamo volare sulla polizia ai tempi dell'università. E a lui alle assemblee, silenzioso e abbronzato, accucciato in un angolo.

"Il problema è cosa resterà di tutto questo fra vent'anni" mi disse un giorno, mentre osservavamo le bandiere rosse e la folla urlante sfilare lenta nel viale. "Avremo vinto e spero che tutto questo non sarà più utile e verrà cancellato" risposi quasi a memoria.

"Ecco, vedi, il problema è che la montagna non rispetta ciò che persino gli uomini ritengono mortale. E noi di lassù rispettiamo solo ciò che la montagna rispetta."

In quel noi capii che Ivano ormai aveva ritrovato, se mai lo aveva perso, il solco della sua vita. Poi mentre nelle vie cominciavano a diradarsi le scritte rosse e le manifestazioni, l'università in qualche modo era finita e lui sparì. Era tornato a casa sua.

In montagna.

Marika era a scuola e non sentì l'esplosione. Quando entrò in casa non si stupì dell'assenza di Ivano. Sapeva che quando le nevi si scioglievano, e se i turni alla segheria lo permettevano, lui saliva sempre sui monti per vedere quello che l'inverno aveva distrutto del ricordo della guerra. E quello che il correre dei torrenti aveva restituito, come ogni anno, di quei soldati lontani.

Ci risultava troppo straniero quel piazzale solenne e geometrico che un sindaco forestiero aveva voluto al centro del paese. Ora con la nuova stagione la pavimentazione si era sollevata. Le radici dei pini erano cresciute, alzando le beole e rendendole pericolose, qua e là.

"Quanti soldi spesi per niente" dico a Ivano.

Lui mi guarda, sorride. "Non lo sapevi che le radici sono la cosa più forte che esiste? Alla fine vincono sempre."

Quella di Ivano è una valle strana, fra il paese e la pianura ci sono ventitre tornanti che scalano una parete dritta, e il senso che ti prende ad ogni svolta è forse quello che i pellegrini provano in processione. Ogni stazione è un nuovo grado di purezza, un altro passo verso l'abbandono di ciò che è terreno per qualcosa d'altro. All'ultimo tornante ti volti a guardare il mondo che hai lasciato, le tue case mischiate alla foschia della pianura, e tutto ti sembra così grigio e confuso che neanche ti interessa fermarti e leggerne i particolari.

L'ansia è qualcosa che proiettiamo quando tremano le certezze. Non era mai successo che dopo le due Ivano non desse notizie col cellulare. Quando il campanile fece tre rintocchi Marika prese la macchina e corse in paese. Suonarono le campane, e mentre i paesani accorrevano e raccontavano dell'esplosione lei stava in piedi sulla scalinata, guardava i monti e forse cominciò a sentirsi sola.

Poi s'udì il rombo dell'elicottero che veniva dal fondovalle.

Ogni passeggiata con Ivano era una lezione frastornante e sterminata. Gli alberi, le specie, le rocce e la storia dei monti. Mi raccontava tutto con entusiasmo, come i bambini quando illustrano i loro giochi. Di tanto in tanto la sua voce rompeva il silenzio, e delle volte quando non avevo più forze la sua freschezza e il suo entusiasmo mi irritavano. Un giorno mentre si scendeva sbottai "Dovresti scrivere un'enciclopedia, così mi ci muoverei meglio quassù". Lui mi prese sul serio, quasi avesse paura mi stessi arrendendo mi consolò. "Eppure è tutto così semplice, qui. Forse è il posto più semplice del mondo, perché possiamo vivere sulla certezza che tutto si ripeterà, e niente mai morirà veramente ".

I massi di una piccola frana avevano invaso la vecchia strada militare. Si fermò e si mise a raccoglierli uno per uno posandoli a lato con ordine. Riprese a parlarmi.

"Qui è il ripetersi che ci dà la certezza e l'anomalo l'unica cosa che ci fa paura, Il pericolo lo leggiamo solo in ciò che succede per la prima volta " Mentre lo ascoltavo lo guardavo far fatica e sudare, e un po' lo invidiavo per quella certezza forse ingenua di poter sempre ricostruire ciò che andava a pezzi della vita.

La prima cosa che lascia senza fiato quando osservi il mondo da una cima, è che gli occhi non trovano nulla di definito su cui d'istinto posarsi. La prima cosa che impari è che si può soffrire di vertigini anche nello sguardo, perché in quell'immenso perdi le stupide finzioni che dominano la tua vita. La certezza che il mondo abbia un inizio ed una fine, un prima e un dopo, e che tu in qualche modo possa essere il centro di quell'universo.

L'immagine dell'elicottero arrivò molto dopo il suo rumore.

Marika sapeva dove probabilmente era Ivano, ma non lo disse.

Si sarebbe potuto pensare che anche qualche secondo d'anticipo avrebbe potuto salvarlo, ma invece così non era. E Marika già lo sapeva.

La prima volta che vidi Marika accanto ad Ivano, ho pensato alle leggende di quei posti sugli uomini dei boschi. A quel popolo magico che vive fra gli alberi, accanto alla gente ma ad essa invisibile perché potrebbe esserne contaminato e perdere d'un colpo la saggezza e la magia acquisite nei millenni. E ho sempre creduto che Ivano fosse un ponte.

Il tramite fra quel popolo incantato da cui Marika veniva, e me.

Si passavano dei pomeriggi leggendo e chiacchierando sul prato davanti a casa. Da lì partivano tutti i sentieri per i boschi e le cime. Ad ogni persona che passava, Ivano e Marika alzavano gli occhi, sorridevano e salutavano. A volte qualcuno si fermava. E spesso, che fossero del paese o turisti, si chiacchierava per ore. L'unica differenza era che quando parlavano fra di loro, per Ivano e Marika chi non veniva dall'altipiano era indistintamente gente. Con quella definizione chiamavano chiunque non fosse delle loro case. Chissà se quando non c'ero anch'io per loro ero gente, o cosa.

Marika lasciò che l'elicottero nel suo volo lentamente disegnasse ogni sentiero tra i boschi, ogni via per le cime. Anche quelle strade per turisti che Ivano odiava così tanto e che mai avrebbe percorso. Perché nello svelare il destino di Ivano quel volo era giusto abbracciasse ogni angolo di quei monti come in ogni angolo di quei monti Ivano avrebbe voluto stesse il suo destino. Quando l'elicottero si mise a girare con insistenza sulle Baracche del Vallone allora Marika ebbe la certezza di ciò che già sapeva. Forse allora pianse, ma nessuno la vide.

Ivano mi parlava spesso del progetto di riparare le linee alte, i ricoveri, ripristinare le gallerie di collegamento, le caverne delle artiglierie.

"Forse potremmo anche fare un museo, lassù, un giorno."

Era ingenuamente entusiasta.

"Ma è tutto così semplice, Ivano. Tu eri il primo di noi. Ti ricordi quando il professore di storia contemporanea si alzò per stringerti la mano. Non ti sei arreso? Non vorresti qualcosa di più? "

"E'facile far finta di comprendere le cose che gli altri fanno complicate, ma è difficile convivere fino in fondo con le cose che gli altri credono semplici. Il rispetto della memoria, per esempio. 0 il vivere con la montagna. Ed è anche difficile oggi ricordarsi che è sempre qualcosa di semplice ciò che alla fine sopravvive a noi, un oggetto, un posto.... Ed è anche semplice l'illusione di ognuno che altri ricorderanno la nostra vita. "

Un giorno portai lassù Paola. L’avevo tanto imbottita di voci strane che probabilmente si aspettava di incontrare solo dei montanari trogloditi e solitari.

In realtà lei, Marika e Ivano se l’intesero benissimo.

Marika le spiegò per tre giorni i boschi e i monti e Paola sembrava di imparare. Ivano però non la condusse mai ai suoi posti, quelli della guerra, e non lo trovai strano.

“Simpatici” diceva Paola mentre voltata li salutava dal finestrino. “Ci torniamo, vero? Ci sono ancora tante cose da vedere”.

Forse quel suo voler osservare, quel suo essere turista era la nota che suonava stonata, perché là certe cose non si vedono, ma si sentono.

Quando mi chiese di tornare io le feci sì col capo, forse per debolezza o forse per indifferenza, ma sapevo che lassù non l’avrei mi più portata.

Corsi incontro a Marika e l'abbracciai.

Allora ebbi la certezza che in lei c’era veramente qualcosa di diverso.

Che veramente lì c’era una magia che oltrepassava la vita come la conoscevo, che superava l’idea di inizio e fine, e quel concetto di morte che noi tanto temiano.

Perché quello che adesso stavo leggendo sul volto di Marika era il saluto di Ivano della partita di pallone, prima che ripartisse dalla città.

Era finito l'ultimo anno.

Giocammo contro quelli di Medicina.

Erano i campioni delle facoltà, noi un gruppo raccogliticcio, messo insieme per una scommessa fatta in una sera un po' bevuta. Aveva piovuto per tre giorni e il campo era un acquitrino. Loro sapevano giocare a pallone ma avevano paura del fango. Resistemmo il primo tempo. In quel secondo tempo non eravamo riusciti a passare la metà campo. Mancavano 10 minuti, sapevamo tutti che prima o poi avrebbero segnato. Il nostro portiere rinviò. Ivano prese la palla e incominciò a correre sulla fascia. Ingobbito, di potenza, passò la metà campo e spingeva avanti quel pallone come il fango non ci fosse.

Gli altri per quanti lo inseguivano non riuscivano  a toccare ne'lui, ne'la palla. Alla fine, giunto sul fondo, crossò. Il pallone fece una virgola perfetta e arrivò sulla mia testa. E, da lì, in rete. Fui subito circondato e festeggiato dai miei, sepolto dal loro abbraccio. Io, da terra, nel fango, guardai verso Ivano. Lui era ancora là nell'angolo, in piedi, e mi osservava tranquillo. Alzai la mano, a salutarlo. Lui contraccambiò. Anche lui alzò la mano. Nei miei occhi, irritati dal fango, era una figura confusa. Ricordo uno sguardo dolce, il suo braccio lievemente alzato e quel sorriso. L'espressione distante e serena di chi se ne sta andando lontano, tanto lontano, ma non saprà mai dimenticare un'amicizia.

Stavamo seduti in un intaglio della roccia. Dietro a noi stava lugubre e nera l'entrata dell'osservatorio. Sentivo l'acqua gocciolare dalle pareti della galleria, l'eco d'ogni stilla era una nota ripetitiva e fresca che si fondeva al profumo di legno marcio e di muffa che esalava dalle pareti. Ivano puntava col dito le trincee degli uni e degli altri, i nidi delle mitragliatrici, le postazioni dell'artiglieria e scriveva una storia là dove a me sembrava di cogliere solo un miscuglio di sassi e detriti, forse ordinati qua là, ma senza un senso.

"Qui, per tre anni vissero trentamila uomini da una parte e trentamila da un'altra. Avete lasciato qui i vostri fantasmi e poi li avete abbandonati come fossero roba morta. E non avete mai dubitato per un attimo che quei fantasmi fossero la parte più eterna e ancora viva di voi.”

Io lo guardo, e non credo di capirlo. O forse, sì.

Mi sembrò che quel giorno, a salutare Ivano fosse accorso un popolo intero. Non pensavo che quelle valli così piccole e silenziose contassero tante persone da poter riempire un mondo. Marika mi aveva voluto accanto. Forse perché ero solo. O forse uno dei pochi della gente, lì intorno.

Ivano ha appena finito di ballare giù al crotto,è la festa di ferragosto, ride, poi si fa serio e guarda le cime. Poi ancora scoppia a ridere, tanto che nessuno sembra possa fermarlo. A quel punto faccio partire il flash. C'è quella foto sulla mia scrivania. A volte la osservo, poi alzo lo sguardo e vedo al di fuori il tappeto freddo di luci e tetti che è la città. Ci sono giorni in cui il vento soffia forte. E pulisce l'aria. Allora dalla finestra vedi il grigio delle montagne e il bianco delle nevi. Sono solo un segno che sporca l'orizzonte, ma ad allungare la mano ti sembra di toccarle.

"Ciò che resta di chi non c'è più è solo una chiave" diceva Ivano mentre frugava fra le sue gavette arrugginite, le cose raccolte. "Quello che conta veramente è ciò che riesci a scorgere oltre la porta che quella chiave ha aperto. "

Su una di quelle montagne, in cinque giorni di combattimenti morirono diecimila uomini dei due eserciti. Sulla cima c'è una colonna mozza. Ci sono incise solo tre parole: per non dimenticare.

Alla fine della cerimonia cercai Paola tra folla. Era venuta con me, ma non la trovai subito. Dopo, mentre tornavo, la scorsi confusa e piccola fra i volti del paese. Ero accanto a Marika, la osservai ma per la prima volta mi sembrò qualcuno di molto lontano. Qualcuno che veniva da un posto molto lontano. Dal posto della gente, forse.

 

A volte penso a Ivano.

E a volte cerco il senso per una vita perduta.

Su una cima c'è quella colonna mozza.

Dovrebbe dare il senso a migliaia di vite perdute.

Forse a milioni di vite perdute.

Forse all'umanità.

Ci sono incise solo tre parole:

per non dimenticare.