Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"

IV edizione - 5 gennaio 1999

 

Terzo classificato

LA PALA DE MENIN

di Myriam Betti Pederiva

via Carano, 22

CAVALESE (TN)

 

Maria Rosa aveva 10 anni. Era quindi l'estate del 1952, una bella estate, piena di sole, di giornate serene con serate tiepide, perfino lassù, a Fuciada a 2.000 metri dove si trovava il baito della famiglia Pederiva e dove appunto si è svolta questa piccola storia.

Nel mese d'agosto, da tempi immemorabili, i contadini di Soraga di Fassa, si portavano sugli alti pascoli di loro proprietà per compiere quel duro ma straordinario lavoro che era la fienagione della località Fuciada, sito stranamente dislocato a grande distanza dal paese e costato chissà quali dure, feroci, battaglie agli avi ormai dimenticati.

V'erano leggende al riguardo. Vi si raccontava di una ricca signora, una principessa o chissà che altro che aveva lasciato in dono ai poveri Soragani questo splendido luogo, perché essi, chiusi fra i possessi di Moena e di Vigo di Fassa, non possedevano un'Alpe dove procurarsi il fieno per l'inverno a venire.

Che fosse poi stata la potente Margaretha Malthausch o chi altro, fatto sta che Maria Rosa nell'agosto 1952 era a Fuciada con papà, fratello Celestino e sorella Antonietta a “far con fegn”.

La storia che devo raccontare riguarda infatti la piccola quotidianità della vita di gente di montagna che si guadagnava il pane a prezzo di grandi fatiche, di grande coraggio, di fortissimo senso di collaborazione.

Dunque Maria Rosa era intenta ad accendere il fuoco nel focolare aperto, formato da un cerchio di sassi posti su di un solido impianto nel centro del piccolo “cosinat”. Bisogna usare parole ladine per essere esatti nella descrizione dei luoghi e dei fatti. Chiamare cucina il piccolo locale, adiacente al fienile, sarebbe infatti esagerato perché l'ambiente dove si faceva fuoco, dove si cucinava e si mangiava, seduti su sedili molto provvisori, ancorati alle pareti, non misurava più di quattro metri quadri. Per Maria Rosa questo cosinat era però il luogo più importante di tutto il complesso, dal momento che lei doveva accudire al suo funzionamento, fornirlo della legna giusta per accendere il fuoco, di quella media per farlo “partire” bene e di quella grossa, ben secca, per mantenerlo poi del giusto vigore. Doveva avere l'acqua ben pulita in una “candola"(1) attaccata al gancio sotto quella specie di “trausel” che il papà aveva improvvisato, con quattro assicelle e qualche chiodo, per posarvi sopra i pochi piatti, i tre bicchieri, e le posate strettamente necessarie al consumo di polenta e di minestra che erano il menù di tutto il periodo di permanenza a Fuciada. Formaggio e qualche “fieta de ardel”(2) si mangiavano con le mani.

Non so dire, oggi, a cinquant'anni di distanza, se per Maria Rosa questo grandioso impegno fosse più una preoccupazione o una gratificazione, certo è che ella aveva avuto l'incarico di preparare il pranzo per papà, zio e fratello che erano su alla Pala de Menin a “sear”(4) mentre Antonietta era dovuta scendere a Soraga ad aiutare la mamma che aveva bisogno di lei.

Maria Rosa era una bimba deliziosa. A dieci anni compiuti da poco, manteneva il suo visetto rotondo illuminato da due occhioni scuri teneri e brillanti, sempre ingentilito da un sorriso accattivante e genuino. I capelli biondi e sottili erano stretti in due treccine un po' ribelli e spesso sfuggivano ai rigori della pettinatura per incorniciare con i morbidi ricci, le gote rosee ed ancora paffute. Era la più piccina della famiglia e la natura l'aiutava a mantenere la prerogativa anche fisica di pulcino di casa.

Ma i tempi erano duri e, pulcino o no, anche Maria Rosa doveva accorarsi la sua parte di impegno nella conduzione dell’economia familiare.

“Maria Rosa, devo andare a casa per alcuni giorni, per aiutare la mamma che da sola non ce la fa. Dovrai fare tu il mangiare agli uomini e custodire il “cosinat”. Sarai bravissima, sono sicura. Qui c'è la farina gialla, qui c'è il sale, qui il formaggio, il pan di segala è qui ed il “toc de speek” è legato quassù che i topi non ci arrivino. Alla mattina fai il caffè d'orzo e poi, più tardi fai la polenta e gliela porti su col formaggio o con lo speek. Alla sera fa “garnele” o “fregoloti” o “mosa” o “supa rostida”(5)...sai ben come si fanno!”

Così Antonietta alla bambina Maria Rosa, promossa donna a molti effetti, sul campo della vita a Fuciada. Quella sera lì nella “szaga”, il letto di fieno, le due sorelle si parlarono fitto fitto, mentre gli uomini già dormivano, abbattuti dalla fatica micidiale che li aveva visti impegnati sulla “Pala de Menin”.

Antonietta aveva diciassette anni, era già una donna e come tale lavorava ed affrontava i problemi quotidiani con estrema saggezza e concretezza.

Il periodo di lavoro da passare a Fuciada era in realtà per lei, come per tutti i giovani che lo vivevano, un periodo un po’ speciale e gradevole.

Intendiamoci, il lavoro era pesantissimo ed incalzante ma in quel luogo si viveva lontani dal mille legacci che la vita di paese imponeva, lontani dagli occhi delle varie “amede"(6),delle comari sempre pronte a criticare, dei vari “noni" (7) che imponevano regole a cui non si doveva trasgredire. Si respirava insomma una certa aria di libertà che a una ragazza di diciassette anni pareva più preziosa della salute stessa.

La sera, dopo cena, ci si trovava spesso, intorno a un fuoco a far quattro chiacchiere, seduti su una “zocca"(8) o su un “slitton"(9) e c'era chi raccontava una "contìa", chi intonava una vecchia canzone a cui tutti poi prendevano parte, chi tirava fuori un organetto ed allora era possibile perfino fare quattro salti a suon di musica. C'era, intorno a questi rustici “filò”, un'aria un po' speciale, un po' intrigante, molto, molto, emozionante.

Antonietta poteva partecipare a tutto ciò con grande moderazione perché papà Tino era severo e poi c'era da andare a dormire presto, presto, con la sorellina Maria Rosa che al filò si addormentava d'incanto, appena incominciavano. La sera prima però s'era sentito un fruscio, un leggero calpestio, sotto la finestrella del baito e le orecchie sensibili di Antonietta avevano sentito chiaramente le parole mormorate appena...”Antonietta .... Antonietta ... t'es belota....” e poi più niente ... Ma il cuore era balzato in petto e qualcosa dentro diceva:

E' il Marco, sicuro, o il Marino, o il Giochele...” Non si seppe mai chi fu quell'audace, misterioso ammiratore ma per Antonietta, quella sera, a Fuciada, erano suonate le trombe della femminilità risvegliata.

Le dispiaceva scendere in anticipo a Soraga ma era necessario. La sorellina si sarebbe dovuta arrangiare come del resto aveva dovuto fare lei alcuni anni prima.

Gli anni non hanno cancellato nei cuori delle protagoniste le emozioni di quei giorni importanti ma il ricordo degli avvenimenti si è un poco appannato e forse non tutto quanto avvenuto in sequenza è esattamente come qui riportato. Alle quattro di mattina, questo è certo, Antonietta se ne andò con il suo fagotto sotto braccio, in compagnia di “nona” Barbola e di “non” Bepi che scendeva col carro, ed alle cinque Maria Rosa trafficava con la cuccuma del caffè appena bollito. Un buon profumo si spandeva per l'aria fresca intorno al baito.

Papà, zio e fratello bevevano il caffè in piedi, sgranocchiando pan di segale; erano già pronti a partire verso la Pala. Oggi si falciava la parte più alta e sugli zaini erano legate le “carpele”(11) senza le quali i falciatori non sarebbero riusciti a stare in bilico sul ripidissimo terreno. C'era un gran silenzio intorno. La cima di Tascia e la parete di Valfreda erano già illuminate dal sole e splendevano letteralmente, stagliate contro un cielo blu cobalto che solo più tardi si sarebbe schiarito.

Gli uomini partirono. “Refe, fauci, codè, père e martìe, carpele, linzei e restei"(12): sulle spalle tutto il necessario per un'intensa giornata di lavoro, ed in testa un vecchio cappello perché lassù ombre non ce n'erano ed il sole picchiava forte !

Maria Rosa, sciacquò accuratamente le "tozzole"(13), del caffè, copri le brace nel focolare nella speranza che si mantenessero fino alle nove, quando avrebbe riacceso il fuoco per fare la polenta da portare su alla Pala. Riassettò tutto, anche il fieno che faceva da materasso, si andò a lavare mani e viso alla sorgente e riempì la “candola” di acqua fresca e pulita. Ne rovesciò un poca nel trasportarla perché veramente pesava molto ma per fortuna non si bagnò gli scarponi, solo un po' la gonnella. Preparò la legna che le sarebbe servita, una bella misura insomma e guardò spesso il sole che saliva in cielo, lo guardò spesso, con attenzione e con apprensione. “Quando il sole illuminerà tutto il ghiaione di Cirelle sono le nove. Riattizza il fuoco e metti su il paiolo. E' ora di far polenta!” Così aveva detto papà e Maria Rosa stava attenta e si rallegrava che non vi fossero nuvole in cielo.

Se il lavoro nobilita l'uomo, in quelle ore Maria Rosa doveva esser considerata una regina, una principessa almeno ...!

Accendere il fuoco, soffiando pian piano sulle brace ancora leggermente vive, ravvivare la fiammella con un pugno di fieno ben secco e poi, via, pronti con la legna sottile a far brillare la fiamma. Fatto il “castel” con la legna giusta, non c'erano più problemi e quel giorno tutto andò per il verso giusto. Poi posizionare il paiolo pieno d'acqua sulla "segosta"(14) e non distrarsi troppo nell'attesa del momento della bollitura. Maria Rosa sapeva che l'acqua non avrebbe fatto quei bei salti che faceva bollendo, nel paiolo di casa. A Fuciada si scaldava pian piano e restava sempre tranquilla. Le avevano detto che era questione di altitudine ma la nozione prevaricava le conoscenze della bambina.

Bene o male, l'acqua bollì e Maria Rosa aggiunse la giusta misura di sale. Le parve che il paiolo fosse troppo colmo e temette che nel versare la farina, il tutto potesse tracimare e, oh tragedia, spegnere il fuoco. Con un “ciazot”(15) tolse prudentemente un po' d'acqua e poi incominciò a versare lentamente con la sinistra la farina gialla, mentre con la destra rigirava vigorosamente il ”mescol” per evitare che si formassero grumi. Era un momento difficile e delicato non c'è che dire. Nessuno poté immortalare con una foto magari in bianco e nero, tale operazione ma ben si sa che il volto della piccola cuoca non doveva aver tempo a sorrisi. Quando il momento cruciale dell'operazione fu concluso, nel paiolo brillava una bella massa gialla e lucente, della giusta consistenza e dal profumo già invitante. Solo allora Maria Rosa si rese conto di quanto forte avesse battuto in petto il suo cuore e si abbandonò ad un grande sospiro di sollievo, ora bastava accudire al fuoco e rimestare senza fretta la polenta in cottura.

“Quando il sole è su verso la Corda, la polenta sarà pronta. Vedrai anche che le croste si staccano. Vuotala nella "baza"(16) e vieni su. Ti aspettiamo alla base della Pala, sopra Contrin.”. Così aveva detto il papà e Maria Rosa ubbidì fedelmente. Qualcosa però incominciò a turbarla fin da metà cottura della polenta. Il tutto si era ritirato vistosamente e la polenta nel paiolo era divenuta piccola, molto più piccola di quella che di solito si faceva.

“Cosa è successo? “ si domandava preoccupata. “Ho tolto troppa acqua, prima? Cosa posso fare?

Sapeva di non dover aggiungere nulla perché avrebbe compromesso irreparabilmente il tutto e soffrì vedendo la bella polentina perdersi un po' nel grande paiolo.

Partì di buon passo verso la Pala de Menin, con il suo cestello carico della bottiglia di vino, dei pezzo di formaggio e della polenta che doveva essere il piatto forte dei pasto dei tre segadori. “Io non ho fame”, si diceva, “la polenta non la mangerei proprio.” E le pareva così di aumentare la porzione che sarebbe toccata agli uomini.

Camminò di buon passo, prima nei bei prati pianeggianti, già falciati, poi via, quattro salti sulle acque chiare del torrente Biois e poi ancora ad andatura sostenuta verso la valletta del Contrin. Dopo la prima mezz'ora di cammino, il suo passo si fece più lento. Il sentiero s'inerpicava, la pendenza era sempre più accentuata e la piccola Maria Rosa sentì il respiro farsi affannoso ed il cuore battere forte. Tirò il fiato, come suol dirsi, e proseguì fino a raggiungere la Corda. Di lassù il panorama si faceva vasto. Gli occhi della bambina puntarono però verso la Paia, l'ardito pendio dove le tre figure che ella cercava le apparvero piccole piccole in mezzo al verde scintillante dell'erba. Si avviò decisa e solo quando fu in su, un bel po' in alto, dette voce, sicura di esser stata notata fin dal suo apparire, almeno dal fratello, da quel Celestino che aveva sempre un appetito da orso.

Gli uomini scesero verso di lei a passi lenti, perché avevano le “carpele” legate agli scarponi.

“ Brava Maria Rosa, era ora grande. Lo stomaco è vuoto e..sacco vuoto no sta en pé!”

Ridevano sedendosi alla bell'e meglio, e si passarono la bottiglia di vino per un primo sorso di ristoro.

Maria Rosa tirò fuori dalla cesta. il formaggio e poi con esitazione la polenta ancora avvolta nella pezza di lino. Celestino fece . “Ohhh, che è ? “ Il non Lin disse: “Tutto qui ?” Il papà tacque e quel silenzio fece alla piccola cuoca più male di ogni altro rimprovero.

“ E' successo ... qualcosa ... non so ... perché...” Balbettava e le labbra le tremavano e gli occhi erano pieni di rincrescimento.

“Niente paura. Voi due, Lin e Celestino, mangiate quel che c'è. lo e Maria Rosa mangeremo dopo”. Così risolse il momento diffìcile l'ex Kaiserjager (1916-18) ed ex Artigliere (1940- 43) Valentino Pederiva che nella sua vita s'era trovato a dover risolvere problemi molto più difficili.

“Hai tutto il tempo, piccola, per tornare in baita, fare un'altra polenta e portarla qui dove ce la mangeremo in santa pace tu ed lo. Va” Le fece una carezza perché era severo, sì ma era anche molto giusto.

Maria Rosa pianse per tutto il precipitoso ritorno, pianse ravvivando il fuoco e ponendo il paiolo pieno d'acqua sulla segosta, pianse finché l'acqua bollì ma poi non poté più badare a sé ed ai suoi affanni. Fece la seconda polenta della giornata e la fece bene, giusta e ben cotta e partì di buon passo verso la lontana Pala de Menin dove giunse verso le tre del pomeriggio e dove mangiò con un appetito sacrosanto, seduta vicino al papà che le sorrideva e mormorava “Sei stata bravissima. Grazie.”

Maria Rosa da grande è divenuta infermiera ed il suo sorriso, gentile e ricco di umanità, è sicuramente servito a molti. Serve certamente ancora oggi alla sua bella famiglia che però quando la vede alle prese con un paiolo, fa un coretto in cui si ripete: “Forza, coraggio, Maria Rosa fa la polenta per tutti quelli della Pala de Menin ... !”.

Note

(1) Secchio.

(2) Piattaia.

(3) Speck.

(4) Falciare.

(5) Minestre tipiche.

(6) Parenti.

(7) Zii.

(8) Ceppo.

(9) Slittone da fieno.

(10) Racconto.

(11) Ramponi.

(12) Zaini, falci, porta pietra e pietra, martelli, ramponi, lenzuola da fieno e rastrelli.

(13) Tazze.

(14) Catena da focolare.

(15) Mestolo.

(16) Canovaccio di lino.