Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale"Parole intorno al fuoco"

IV edizione - 5 gennaio 1999

 

Primo classificato

LA RONDINE CALVA

di Soressi Tiziana

via Manzoni, 30/B

MEDA (MI)

 

“Du giuran a primavera”. Due giorni a primavera dice la Giuana guardando il cielo della Ranca. Annusa il sole dilatando le narici come un segugio all'erta. Da cinquant'anni è ormai in attesa di questa stagione come se avesse radici verdi da imboccare, mentre lei è vecchia, vecchia per Dio come il mondo: novant'anni compiuti il primo maggio. A questo punto tutti i giorni per lei sono indifferenti, una lunga litania di ore imbarazzate. Ma aspetta la primavera davanti alla porta con le braccia incrociate scalpitando come una primula acerba.

Due giorni a primavera è il suo tempo assoluto e -cascasse il mondo- lei sarà lì ad attenderla.

Faceva un caldo amaro quell’estate del '44 e lei glielo aveva detto a sua figlia Cesarina: “Va mia foera a lavát i cavi, pardìgar!.

Aveva dei capelli lunghi lunghi la sua Cesarina che le arrivavano inverosimilmente giù giù oltre l'anca. 'E táíatía!” (2) la redarguiva sempre la Giuana. “T’è tùta scatiénta” (3).

Quello non era tempo di capelli lunghi. Capelli liberi e setosi, che fluttuavano nell'aria e avevano un guizzo energico che sembrava vivessero di vita propria. E nell'acqua si aprivano a cerchia come ombrelli di trasparenti meduse.

C'erano pidocchi dappertutto in agguato. Pidocchi e tudoese (4)  che tagliavano le teste. Per lavarseli poi bisognava andare fuori alla fontana dietro al poggio. Non era tempo di andare fuori. Non era tempo di fontane. Ma la sua Cesarina non sentiva ragione. Così alla madre non rimaneva che aiutarla pazientemente a pettinare i suoi capelli che ci si impigliava dappertutto.

La Cesarina si sottometteva mansueta ai colpi energici della sua spazzola senza battere ciglio: “I cavi d'la cúpa i fan ver la búcá" (5). E sua madre non finiva più di pettinarli tanti erano “E táiatia, pardigal” (6). Infine le componeva una treccia intorno alla testa pesante come una corona di spine. Non bastavano neppure tutte le forcine a tenerla su “E táiatia, pardígal!”.

Ma la Cesarina non sentiva ragione: erano l'unica ambizione sua, l'unica abbondanza sua. Erano suoi. Li sentiva pulsare sulla sua testa come avessero rivoli di vene accese e centinaia di bocche e di mani e di dita in fermento. Creature vive, che erano parte di lei, che erano lei. Ed era molto in mezzo a un mondo intriso di morte e di morti viventi.

Suo padre Venuto era scappato in qualche anfratto della costa dei Bignoni con i tre o quattro uomini rimasti in zona. Gli altri che non si erano presentati alle armi col nuovo Governo Repubblicano si erano rifugiati più su in montagna. Da qualche giorno soltanto erano cessati gli spari tra partigiani e repubblicani, laggiù in fondo dalla parte di Lugagnano. Ed ora ovunque c'era un silenzio sospeso. Un terrore confuso di minacce indecifrabili.

La Giuana sentiva scoppiarle il cuore, ogni volta che la Cesarina andava nel nascondiglio di suo padre e gli portava dei viveri e perfino qualche arma per la difesa o la caccia di sopravvivenza. Gliela veniva a consegnare alla chetichella da Bore un partigiano amico, Pinén d'l'Abà. Ma la Cesarina non aveva paura pardigal (7) . “La finìssa at vadrè, la fìnìssa la guèra” (8).

E usciva col fazzoletto ben stretto sotto alla gola e la sua treccia sulla testa, gonfia come una cresta. La gonna le percuoteva i polpacci per la fretta. E chiudeva la porta con quieta baldanza, sbattendo i piedi impazienti contro il pavimento, come se fosse in ritardo per la funzione.

Ed era ormai proprio irraggiungibile, quando scendeva giù dalla Ranca e aveva i suoi diciotto anni ai piedi e la gonna per la furia si drizzava alta come una bandiera. Sua madre faceva fatica ad inseguirla con lo sguardo da dietro ai vetri, anzi ormai presto non riusciva più a raggiungerla “La finìssa at vadrè, la finìssa la guèra”. E alla Giuana non rimaneva che attendere, che attenderla.

Ma l'affanno aumentava maladiscàssa (9), se la Cesarina era costretta a trattenersi nel nascondiglio qualche giorno, per qualche imprevista necessità o perché la via del ritorno non era sicura. Militi e tedeschi ultimamente erano saliti anche sui monti a fare rastrellamenti di partigiani. Già da qualche mese, inoltre, Vernasca e le zone limitrofe erano sottoposte, soprattutto di notte, alle lotte accanite dei ribelli coi repubblicani che si trovavano in paese.

Il cuore alla Giuana si quietava solo quando riconosceva il fazzoletto di sua figlia che spuntava dietro il poggio e allora, con un respiro sospeso, inseguiva lo slancio vigoroso del corpo di lei nella salita.

Dopo un po' la Cesarina entrava in casa affannata, sbattendo i piedi sul pavimento. La gonna percuoteva con insolenza i suoi polpacci tesi: “Al sta bén me pár al sta bén. Però a ghé da fa una súdada cun cul cad chél” (10). ”Poi faceva scivolare il fazzoletto dal capo. Sembrava appena ritornata dalla funzione. La treccia arruffata, dalla sommità della testa, stramazzava sulle sue spalle poi sulla schiena come un fagiano abbattuto in volo. Lei riusciva perfino ad avvertire in fondo alla nuca la fitta brusca della tirata.

A t'té tùta scatiénta, pardigal!" (11) riprendeva allora la Giuána E táiatia un po' stì cavì" (12). Le sue parole si smorzavano poi quietamente fra colpi di spazzola infiniti e tiepidi. Le sue mani ruvide sembravano in cova.

Faceva un caldo amaro il 4 luglio del .44. Più che l'arsura, la desolazione. Ovunque un terrore sospeso di repubblicani e di tedeschi. A questo si aggiungeva anche la fame: la Prefettura di Piacenza aveva tagliato completamente i viveri alla popolazione.

“Alùra a vo" (13) disse la Cesarina. L’orlo della sua gonna sbatteva nervosamente contro lo stipite della porta. I suoi occhi semichiusi percorrevano in fretta la costa dei Bignoni. Inciampando nell'orizzonte tormentato dal sole. Erano ormai due settimane che non andava a rifornire suo padre. Non avrebbe potuto attendere oltre. Sentiva i piedi ardere dentro gli zoccoli: li sbatte risolutamente contro l'ultimo gradino, là dove l'erba era ormai soffocata dall'arsura.

“Alùra a vo".

L'ultima cosa che sua madre scorse in lontananza fu il turgore del suo fazzoletto: indovinò la curva della treccia in letargo. Lei stessa gliela aveva appena accucciata sulla testa. Poi non riuscì più a contare i suoi passi. Chiuse la finestra e maladiscàssa  (14) attese con le braccia incrociate sul cuore.

“ I ghén i tudoesc! Ci sono i tedeschi!” un vocio atterrito si era levato inaspettatamente da Vernasca. Ci fu un fuggifuggi generale. Dalla provinciale, sopra e sotto il paese, sfilavano minacciosi i loro camion. Iniziarono spari ovunque nelle vie del paese, intorno al canali ed ai monti. Le donne, i bambini e qualche vecchio si chiusero disperati e sgomenti dentro le case. Gli uomini erano rintanati chissà dove.

All'improvviso le balze della gonna della Cesarina si irrigidirono intorno ai polpacci come ghiaccio aggrappato alla china.

I tedeschi si erano spinti anche sopra al paese, battendo i sentieri che portavano ai monti.

Così l'incontrarono, la Cesarina, con la sua corona salda sulla testa ed il groppo audace sotto alla gola e i diciotto anni ai piedi: “La finìssa at vadré, la finìssa la guèra. A vo” (15).

Essi, vedendola in quella solitaria zona boschiva, sospettarono subito che la ragazza stesse compiendo qualche missione a  favore dei numerosi partigiani nascosti negli anfratti. 1 mezzi di sussistenza che portava con sé erano di già per loro prova bastevole.

Lì, dunque, fecero terminare la sua fretta.

I tedeschi la presero, le legarono le mani dietro la schiena e la trascinarono con brutalità in paese.

In municipio venne sottoposta ad un interrogatorio che durò buona parte della notte. Il verdetto che ne derivò fu definitivo: giudicata una specie di staffetta dei partigiani, avrebbe dovuto essere giustiziata l'indomani, come monito per tutti.

Venne cosi fissata una forca al margini della strada provinciale nella svolta di Costa, proprio di fronte alla Ranca.

Alle undici e trenta dei giorno dopo la Cesarina dal municipio venne portata in piazza ed avviata al suo supplizio.

Erano presenti una quindicina di tedeschi e quattro uomini del paese.

La Cesarina venne condotta con una fune al collo. La sua treccia scarmigliata e disfatta le lambiva disordinatamente il viso insaguinato, la schiena e le spalle: “Cesarina. a t'té tùta scatiénta! E táiatia chi caví ché, pardigal!” (16).

I lembi della sua gonna erano appassiti intorno alle gambe, non le solleticavano neppure le ginocchia: “A vo”.

Pensò alla finestra di casa sua e, dietro alla finestra, gli occhi di sua madre e, dietro agli occhi di sua madre, il suo cuore. E dietro il suo cuore...

Venne condotto un carro armato sotto la forca che dava nel mezzo della strada. Prima che la Cesarina vi venisse fatta salire, un tedesco con furia le raccolse in una mano i capelli dietro la nuca, senza riuscire a contenerli tutti. Spighe nere lunghissime, fluenti e vive come la vita: “E táiatia, pardíqal! (17).

Poi con un colpo netto di coltello li recise tutti.

Caddero al suolo sparsi e fitti come fili esangui di una coperta disfatta. Altri, durante lo strappo, si sollevarono, sembravano serpenti incantati e salparono nel vento piatto dell'estate bruciante. Quella volta la Cesarina morì mille volte.

Con la fune che aveva al collo denudato venne appesa alla forca.

Tolsero il carro armato. Improvvisamente gli orli della sua gonna si aprirono a corolla a bere un lungo avido interminabile respiro.

I suoi piedi nudi si mossero nell’aria con un brivido: “Alúra a vò” (18).

D'un tratto però si strappò la fune e la Cesarina piombò a terra. Respirava ancora. Socchiuse a fatica gli occhi e percepì nettamente da lontano il profumo del rosmarino davanti alla porta di casa sua: “Va' mia faera a lavát i cavì, pardìgal!” (19).

Poi fu fatta appendere nuovamente con altra corda. Solo allora gli orli della sua gonna si chiusero ad abbracciare le sue gambe gelide e il suo collo spoglio si chinò verso l'erba nera: “I caví d'la cúpa ífan ver la búca” (20).

Rimase così tre giorni sulla sua croce pendente.

Alla Ranca già da due giorni la Giuana andava avanti e indietro davanti alla finestra, aspettando maladiscássa (21) di scorgere un fazzoletto dietro al poggio e lo scalpiccio di due piedi vigorosi: “Al sta bén me pár, al sta ben” (22).

La Cesarina era stata sicuramente trattenuta nel nascondiglio di suo padre. Era già successo qualche altra volta. Del resto lei non poteva andarle incontro. I tedeschi erano ormai dappertutto. Era proibito uscire e comunicare.

La sua attenzione non venne neppure minimamente distolta dal fantoccio, visibile dalla sua finestra, che penzolava da una forca non lontano da casa sua. Probabilmente i tudoesc lo avevano appeso lì per spaventare i partigiani che spiavano dal monti vicini.

Quella fu l'ultima volta che la Giuana guardò sua figlia e la prima volta che non la vide.

La sua Cesarina doveva ancora tornare: “La finìssa, at vadré, la finìssa la guéra” (23).

Il corpo della ragazza, insultato dalla calura e da un forte temporale, venne sepolto tre giorni dopo l’esecuzione. Due ore erano state concesse dai tedeschi per la sua sepoltura. L'avevano accompagnata al cimitero il prete e i quattro uomini rimasti. Al suo passaggio per le strade del paese non c'era nessuno. Solo silenzio e terrore Ora dentro la terra un lenzuolo faceva ombra ai suoi diciotto anni.

Soltanto qualche giorno dopo qualcuno si premurò di raccontare a sua madre una pietosa bugia: la Cesarina era stata uccisa da una raffica, mentre fuggiva dai tedeschi. Doveva passare ancora del tempo prima che venisse a conoscere tutta la verità.

Ma la Giuána non smise mai di attenderla, maladiscàssa (24). Da qualche parte. In qualche modo. Con le braccia incrociate sul cuore. Davanti alla finestra.

La primavera del’ 45 era tiepida. Si poteva cominciare a respirare.

La terra si ridestava con le sue ferite. Alcuni uomini provarono a lasciare i loro nascondigli per tornarsene in paese. I boschi ed i canali si ripopolarono di fagiani e lepri scattanti.

Anche sull'ultimo gradino della casa della Giuána spuntarono viole rigogliose e giovani erbe. Più in alto, sotto i bassi tetti della stalla e del pollaio, comparvero i primi nidi di rondine.

Un giorno la Giuana, avvicinandosi per caso ad alcuni di essi, osservò qualcosa che le incendiò il cuore. An gh’era rnia dùbi(25): quei nidi erano stati costruiti con gli inconfondibili lunghissimi capelli della Cesarina. Neri e forti. Anche se lei non riusciva a capire, maladiscássa, come e dove le rondini li avessero trovati.

Cosi incominciò la sua infinita primavera. La Cesarina doveva ancora tornare. Da qualche parte. In qualche modo.

La Giuana sapeva che sarebbe restata in attesa per tutta la vita, finché fosse rimasto di lei sulla terra anche un solo capello. E la sua Cesarina ne aveva tanti di capelli che a contarli tutti finirebbe il mondo.

Note

(1) “Non andare fuori a lavarti i capelli, perdinci”.

(2) “E tagliali!”.

(3) “Sei tutta spettinata”.

(4) Tedeschi.

(5) “1 capelli della nuca fanno aprire la bocca” (detto popolare).

(6) “E tagliali, perdinci!”.

(7) Perdinci.

(8) “Finisce, vedrai, finisce la guerra”.

(9) Maledizione.

(10) “Sta bene mio padre, sta bene. Però c'è da fare una sudata con questo caldo!”

(11) “Sei tutta spettinata, perdinci!”.

(12) “E tagliateli un po' questi capelli”.

(13) “Allora vado”.

(14) Maledizione.

(15) “Finisce, vedrai, finisce la guerra. Vado”.

(16) “Cesarina. sei tutta spettinata E tagliateli questi capelli, perdinci!”.

(17) “E tagliateli, perdinci!”

(18) “Allora io vado”.

(19) Non andare fuori a lavarti i capelli, perdinci!”.

(20) “I capelli della nuca fanno aprire la bocca”.

(21) Maledizione.

(22) “Sta bene mio padre. sta bene”.

(23) “Finisce, vedrai. finisce la guerra”

(24) Maledizione.

(25) Non c'era dubbio.