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Le radici d'Europa

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Segnalato

Le radici d'Europa

di Luca Rossetto - Arcade (TV)



Le montagne accarezzate dal sole offrivano uno spettacolo stupendo.
La neve, come coltre spessa e soffice, rendeva tutto immacolato. Difficile non pensare al Creatore in un ambiente così ricco di pace e silenzio. La giornata era stata intensa ma rilassante.
Sciare era sempre stato uno dei suoi sport preferiti e farlo in solitudine (la sua condizione lo permetteva) lo portava sempre vicino al cielo come non lo era mai stato.
Una palla gialla e vermiglia di fuoco, grande era il sole, e la neve, tutto il giorno immacolata, ora assumeva una colorazione rosata, mescolando l'azzurro residuo dell'acqua ghiacciata ai riflessi degli ultimi tiepidi raggi solari.
La neve, tanta neve su quei monti.
- Come nel mio paese - pensò l'uomo vestito di bianco - così tanta che copre le campagne gelate per tutto l'inverno ...
Facile e sciolta, la memoria ritornò ai suoi ricordi di gioventù e s'insinuò tra le pieghe dei pensieri.
Un'altra distesa innevata, attorno a case e ville e palazzi della sua città. I doccioni che srotolavano lingue di ghiaccio, attorno al tetto dell' Arcivescovado, che vedeva dalle imposte socchiuse nelle lunghe giornate invernali, quando il sole era pallido e velato di nubi gravide di neve.
Quell'anno era scesa copiosa fin dalla fine di ottobre e sarebbe durata per lunghi mesi.
Un disagio che si sommava con tutti quelli che la guerra maledetta trascinava con sé. In quell'ultimo anno, la Polonia si trovava stretta nella morsa dei due più formidabili eserciti del mondo, quello tedesco che l'occupava quasi totalmente e quello sovietico che premeva dalle terre liberate del sud.
Non poteva farci nulla, la neve aveva questo effetto ipnotico e lo trascinava sempre a questi pensieri.
Ma questa volta, un ritaglio di ricordo tornò a far capolino in questo turbinio di visioni, sospinte da una leggera brezza che sollevava la neve spuria e la rendeva brillante, trafitta dalla luce del sole...

“Cracovia (Kracow), novembre del 1944.
La repressione tedesca in Polonia si era fatta più intensa dopo l'insurrezione di Varsavia nell'agosto del 1944, con la deportazione di tutti i giovani. Anche Cracovia venne perquisita dalla Gestapo nel "lunedì nero", il 6 di agosto, con lo stesso scopo, per impedire una analoga sollevazione nella città.
I tedeschi del Terzo Reich occupavano la Polonia fin dal 1939.
L'Accademia di Cracovia, la famosa Università Jagellonica, venne chiusa lo stesso anno. Tutti i giovani studenti dovettero cercarsi un lavoro e continuare gli studi di nascosto.
Karol lavorò prima come fattorino, poi come manovale in una cava di calcare, entrando nel Seminario clandestino nel 1942, anno della sua apertura.
Dopo la disastrosa Campagna di Russia l'esercito germanico venne ricacciato dalla potenza sovietica che aveva liberato l'Ucraina nel 1943, dopo il sacco di Stalingrado, e la Bielorussia e la Slovacchia nel 1944.
Nella città si aggiravano i partigiani, che dovevano preparare il terreno per l'invasione sovietica e numerosi sbandati degli eserciti tedesco e alleati.
I giovani studenti nascosti nella sede vescovi le, spiavano dalle finestre i movimenti attorno ai vari palazzi, timorosi di venir scoperti dai servizi segreti di Hitler.
Alla porta del Seminario, si presentarono quattro soldati, malconci, denutriti e ghiacciati fino alle midolla, con i piedi avvolti in stracci gelidi dopo aver camminato nella neve alta che copriva la città ormai da diverso tempo. Era metà pomeriggio, ma sembrava ormai l'imbrunire tra quei palazzi che le nubi coprivano da alcuni giorni.
- Battista, chiediamo qui se hanno un pezzo di pane o di polenta - disse uno dei quattro, di nome Giovanni.
- Magari ci fosse la buona polenta di casa nostra! Neanche pane troveremo, ma sicuramente delle patate. Patate, patate, patate. L'importante è riempire lo stomaco! - gli fece eco, sottovoce, un altro.
- Lasciate fare a me, in chiesa non possono certo rifiutarci un po' di cibo, siamo pur sempre cristiani! - E Battista bussò vigorosamente, con le nocche nude che ormai non sanguinavano più da quanto erano fredde.
Da dentro, dopo qualche minuto, un leggero passo si avvicinò al portone. Si sentivano spiati, da occhi impauriti.
Dietro la porta di legno, un parlottare silenzioso: - Sembrano... sono soldati. Ma non sono tedeschi e nemmeno russi - sussurrò un giovane seminarista.
- Facciamoli entrare, non mi sembrano pericolosi, guardate in che condizioni sono.
- Ma Karol, siamo clandestini anche noi, non vorremo mica farci scoprire?
- Ricordatevi che l'accoglienza è un precetto cristiano, non perché ce l'ha comandato Dio ma per un sentimento che deve essere naturale nel cuore dell'uomo. Apri la porta.
Battista, in un polacco incerto ma comprensibile, chiese il permesso di entrare:
- Sia lodato Gesù Cristo, padre, siamo qui a chiedervi un tozzo di pane.
- Sempre sia lodato, ma io non sono un prete, sono solo un semplice seminarista ­rispose l'interlocutore, e continuando - entrate, entrate pure, qualcosa è rimasto nelle cucine.
E cambiando lingua e provando in uno stentato italiano: - Ma voi siete soldati italiani! Come vi chiamate? di dove siete?
- Sono Battista Franceschini, del battaglione Val Cismon della divisione Julia, classe 1923. Loro sono miei commilitoni e compaesani. Siamo veneti di Treviso, padre, cerchiamo conforto nella vostra chiesa - continuando il dialogo nella lingua natìa.
- Dammi del tu, Battista, io sono Karol. Sono stato in Italia, fra poco ci ritornerò. Ma ora entriamo e mettiamoci a tavola, mi racconterete di voi dopo aver pranzato. Erano rimaste salsicce e una bella pentola di patate calde.
Dopo la benedizione di quel povero ma caldo cibo, mangiarono a sazietà, per rinvigorire le stanche membra, mentre il racconto delle loro traversie continuava.
- Siamo reduci del fronte orientale ... - ricominciò Battista
Le emozioni erano palpabili: la fame, il freddo, i compagni caduti.
Tra voce roca e ultime lacrime a stento trattenute, ripercorsero il lungo cammino di rientro in patria nell’aprile del 1943.
Con l’armistizio dell’ 8 settembre, il Val Cismon venne subito sciolto: potevano tornare a casa.
- I tedeschi che occupavano le nostre terre – proseguì Battista- da alleati erano diventati nemici e proprio in casa nostra. Non restava che nascondersi e sperare di salvarsi, come riuscì a molti.
Io e Giovanni, siamo stati più sfortunati, perché ci catturarono a pochi chilometri da casa e fummo deportati nei campi di concentramento in Prussia orientale. Ma siamo ancora vivi! E fuggendo siamo giunti fin qui, diretti a Praga: la Slovacchia è libera e vogliamo ritornare a casa!
Il pomeriggio volgeva al tramonto ed era giunto il momento di accomiatarsi, non potevano permettersi di ospitarli per la notte, era troppo pericoloso.
- Che Dio vi benedica e vi assista, la strada è ancora lunga e troverete i russi nel vostro cammino. Vi auguriamo ogni bene – disse nel salutarli Karol.
- Non dimenticheremo il vostro buon cuore e con l'aiuto del Signore torneremo a casa. Presto finirà questa assurda e dolorosa guerra.
Si allontanarono, nel buio delle strade, in cerca di un posto per dormire: un fienile, una cantina, un ricovero per gli animali. Ovunque ... "  
Il giovane segretario si avvicinò silenzioso, osservando l'uomo vestito di bianco assorto nei suoi pensieri.
- Santità, santo Padre, è tempo di rientrare, il giorno volge al declino - disse distogliendolo dai suoi ricordi. Il sole ormai basso, lo sfiorava sui capelli bianchi spettinati dalla brezza e gli donava un' espressione serena. Senza rispondere, si volse a seguirlo corrugando la fronte in un'unica incertezza.

Cusignana, luglio del 1993
Il figlio gli sistemò la cravatta. Era preparato per una giornata importante.
- Nonno, nonno, continua a raccontarmi la storia di ieri sera! - gli disse il nipotino mentre Battista si sedeva sulla sedia in cucina, in attesa che arrivasse Giovanni.
- E va bene, dov' eravamo rimasti? ah sì, a Cracovia, nell'inverno del' 45 ...
Il nonno era visibilmente commosso, dai ricordi, dalle vicende e soprattutto da quella giornata che sarebbe stata emozionante.
- Mentre i sovietici entravano a Varsavia in gennaio, noi cercavamo di raggiungere Praga.
Stanchi e sfiniti, soprattutto dalla fame, fummo catturati dai sovietici. Eravamo prigionieri di guerra, guardati a vista dai russi e confinati in un borgo. Ma almeno potevamo mangiare e in quel momento era l'unica preoccupazione.
Se fosse stato per i kazaki, dovevamo essere tutti deportati in Siberia ... Ma gli ufficiali, quasi tutti russi, erano clementi con noi e rispettosi della nostra condizione di soldati italiani. Non altrettanto lo erano con le camicie nere, i fascisti, e con i volontari italiani dell'esercito tedesco: quelli sì finivano tutti nei campi delle fredde steppe russe!
- Ma nonno, come sei riuscito a salvarti? - lo interruppe l'impaziente nipote.
- Un giorno - continuò Battista - stavo osservando il soldato di guardia che si stava
arrotolando una sigaretta. Gli chiesi se ne aveva una per me. Glielo chiesi in russo. Mi guardò e mi rispose "Vuoi fumare?" poi mi fissò interdetto e sorpreso e continuò " .. ma tu parli russo! Come puoi conoscere la mia lingua? Come mai parli russo?" e senza lasciarmi rispondere mi trascinò al comando.
Il tenente colonnello non mi fece la stessa domanda. Ci guardammo negli occhi in silenzio.
Capì perché sapevo il russo perché anche lui era stato dov' ero stato io. Avevamo combattuto sul Don -
E il vecchio s'interruppe, con un groppo in gola mentre sotto gli occhi scorrevano distese di neve, i corpi dei caduti, i fischi degli spari e i tuoni del cannone, i piedi congelati e la tenaglia del freddo.
- La richiesta del tenente era chiara - continuò - cercavano un interprete per radunare gli italiani dispersi e rispedirli in patria. Una buona notizia, ma risposi che conoscevo appena la loro lingua.
"Parli il russo meglio dei miei soldati. Guardali, sono russi, bielorussi, partigiani ucraini, kazaki, tagiki, uomini del Caucaso e delle steppe mongole. Una babele di lingue e abitudini. Tu ... tu sei la persona giusta" mi disse.
Così, vestito con la divisa sovietica di soldato semplice e insieme a due militi guardiani, cominciai a cercare i nostri compaesani dispersi e nascosti.
Li portavamo a Katowice, presso la sede della Croce Rossa, e da lì venivano caricati sui treni diretti a Praga, per poi continuare verso l'Italia.
Non ti nascondo che sono stati mesi difficili. Non tutti si fidavano di me, un italiano vestito come i russi. Qualcuno mi ha insultato, ho ricevuto anche sputi. Ma non li ricordo più.
Preferisco pensare a quanti mi hanno ringraziato per l'aiuto e il coraggio profusi. In pochi mesi sono riuscito a contattare oltre 300 soldati italiani, che così sono rientrati in Italia ...
Il lungo discorso del vecchio venne interrotto bruscamente. - Papà, è arrivato Giovanni - lo chiamò il figlio.
- Nonno, dove andiamo? - sussurrò il nipotino, accortosi dell'importanza del momento.
- Andiamo a vedere una persona importante - rispose con la voce rotta, mentre gli occhi si inumidivano di lacrime e ricordi.
- Andiamo a Lorenzago.  
L'abbraccio tra Battista e Giovanni fu caloroso come il solito. Ma la giornata era davvero speciale e lo si sentiva nell'aria.
La piccola colonna di vetture s'avviò per le strade che portano sul Cadore, verso la meta del viaggio, la cittadina di Lorenzago.
Nonno Battista, seduto dietro, continuò a parlare al nipotino che gli stava a fianco.
- Ma nonno, come hai fatto a ritornare a casa?
- Oh, ragazzo mio, verso l'autunno del '45 ho preso anch'io il treno per la Slovacchia.
Erano già diversi mesi che facevo l'interprete, un bel giorno decisi che era il momento di tornare nella mia terra. Così radunai i miei compagni di viaggio e salimmo su quel treno che non faceva più fermate se non a Praga. I russi tentarono di fermarmi sul confine. "Dove vai vestito con l'uniforme dell'Armata rossa? Stai disertando?" mi intimarono con l'atto di arrestarmi. "Sono italiano, ho aiutato i vostri superiori nei pressi di Katowice a rintracciare gli italiani da rispedire in patria. Ora è giunto il momento che vi ritorni anch'io!".
Ci lasciarono passare e giungemmo a Praga: da lì, con i camion americani degli Alleati arrivammo a Vienna. Poi, un treno ci portò a Pescantina, nel veronese, dove i nostri superiori, quelli rimasti, ci volevano riunire. Ma non ne volevo più sapere, mi premeva tornare a casa.
Così approfittai di un passaggio, su un vecchio camion della Croce Rossa di Conegliano che da Verona portava i feriti nella cittadina trevigiana. Sono sceso a Spresiano, sotto gli occhi increduli dei partigiani che presidiavano posti di blocco nel paese. Capivo i loro sguardi e le domande che non mi fecero: un soldato italiano, con la divisa sovietica. Quale storia ci potrà raccontare?
Ti dico solo un'ultima cosa: tornato a Cusignana, mia cognata, la zia Rina, non mi riconobbe. Pesavo solo 44 chilogrammi.
Il paesaggio scorreva lento e soffuso sotto gli occhi dei viaggiatori. Era proprio una bella giornata di sole, forse un po' calda in pianura, ma tra i monti l'aria fresca e dolce metteva pace e portava il sorriso al cuore.
Giunsero a Lorenzago a metà mattina, l'udienza con il Papa sarebbe stata verso le 11 e mezzo.
Nell'attesa, rimasero tutti in silenzio, mentre attorno gli altri pellegrini ridevano, vociavano, qualcuno pregava.
L'arrivo del Pontefice venne salutato da un lungo applauso, dai canti e da qualcuno che inneggiava "Viva il Papa".
Battista fece quello che si era promesso di fare: chiese agli inservienti se poteva parlare con Sua Santità dopo l'udienza, accennando ad un incontro di molti anni prima.
Questi, sorpresi dall'insolita richiesta, la girarono al segretario che dopo aver confabulato con il diretto interessato, accondiscese.
Il vecchio alpino si calcò in testa il suo cappello logoro e sdrucito, compagno di viaggio, e si avvicinò al Pontefice.
Parlò, con esile ma ferma voce, in un polacco ancora deciso: - Santo Padre, benvenuto nelle nostre terre...
Giovanni Paolo lo fissò con tenerezza: - Franciscek... Franceschini... amico mio... - e l'abbracciò a lungo.

La folla vociante non si accorse del momento, non capì l'importanza dell'evento. Ogni parola ora è superflua, solo il silenzio racchiude quanto i loro cuori trasmisero. Erano isolati altrove, in un altro dove.
L'Europa nacque sulla pelle di milioni di vittime, di infermi, di reduci, di famiglie. Nacque sulle piaghe delle guerre, sulla fame, sugli stenti.
Nacque sul sangue dei caduti.
Non lasciamo che le loro morti siano vane.
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