La corda della salvezza - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La corda della salvezza

Tutte le edizioni > Edizione11
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XI EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2006
Segnalato

La corda della salvezza

di Annalisa Fregonese - Oderzo (TV)



Gli occhi che brillavano nel volto bruciato dal sole e dalla guerra strizzarono fino a diventare due fessure: di lì a poco avrebbe avuto inizio l’assalto. La mattinata domenicale s’avviava alla metà del suo percorso, luminosa di un cielo trasparente dono del temporale notturno. Sapeva che, nel giro d’un paio d’ore, dal sentiero che saliva a svolte tra le rocce, pur essendo piuttosto ripido nel tratto terminale, sarebbe giunta l’umanità più varia. Da sotto il suo cappello d’alpino che aveva visto la guerra mondiale, provato il morso ghiacciato della Russia, sudato insieme ad altre Penne Nere nel restauro di un vecchio ospedale, avrebbe osservato impassibile quelle decine di persone che giungevano lassù spinte più dalle mode e dal consumismo che da un amore vero per la montagna. Li aveva in profonda avversione quegli esseri che a suo avviso ben poco ne capivano di montagna. Individui che ciarlavano a voce alta, incapaci di cogliere i maestosi silenzi che giungevano dalle cime; che coglievano fiori e scavavano fra le rocce con i loro temperini alla ricerca di chissà cosa; che abbandonavano cartacce e lattine, cicche masticate e mozziconi sulle sponde dei torrenti; che disturbavano gli animali blaterando nei loro telefonini; escursionisti che s’ostinavano ad incolonnarsi come greggi. Il gestore del rifugio lo burlava, dicendogli che era un vecchio sofistico; e che se la montagna in qualche modo sopravviveva allo spopolamento ed alla desolazione lo si doveva anche a quei “domenicali”. Salvo poi imprecare tra i denti quando al banco qualche turista gli chiedeva, perfettamente convinto di essere servito, un cocktail alla moda. O quando armato di guanti e secchio compiva il giro quotidiano intorno al rifugio per ripulirlo dai rifiuti abbandonati.
D’accordo, coloro che giungevano lassù non erano tutti come quella turista che si era lamentata per il mal di piedi, calzati da scarpe in coccodrillo. Aveva strabuzzato gli occhi quando le aveva viste. No, c’era anche chi affrontava le rocce con rispetto, semplicità, umiltà. Molti i giovani che talvolta pernottavano al rifugio provvisti dell’essenziale e che, illuminati dal sole sorto da poco, s’avviavano ad affrontare le pareti di roccia. Erano la sua consolazione, gli unici con i quali intavolava una delle sue rare conversazioni nelle quali affioravano i ricordi. Essi galleggiavano come petali sull’acqua, portati da una lenta corrente: il volto di sua madre, che non l’aveva riconosciuto quand’era tornato dalla Russia tanto era magro e sfigurato. I visi dei commilitoni lasciati laggiù, nel 1943, sulle distese gelate della Russia, gli occhi immobili e spalancati su un cielo grigio che non vedevano più. I capelli neri della contadina che l’aveva tenuto con sé nella sua isba, dividendo con lui il pane di segale e la neve sciolta sul fornello. Perché aveva salvato lui e non altri? Rivedeva quella donna dall’età indefinibile, forse cinquanta forse settant’anni, che lo scaldava di un fuoco di torba, gli massaggiava gli arti congelati, lo rivestiva d’abiti maschili che aveva compreso essere appartenuti al fratello di lei. Perfino un paio di stivali di cuoio gli aveva dato, foderati di pelliccia. Quando, riavutosi dallo scampato congelamento e scongiurata la morte per fame, era ripartito vestito di tutto punto, aveva ripreso la sua marcia verso casa, sul volto della contadina russa erano scese due lacrime silenziose. Chissà, forse in quell’alpino italiano, giovane invecchiato dalla guerra, aveva rivisto il proprio fratello. Le era parso d’averlo ritrovato mentre invece egli non era mai più tornato da Stalingrado.
Ecco, gli occhi ed i capelli di Elsa, l’alpinista, gli ricordavano quella contadina. La stessa determinazione e tenacia, lo spirito indomito e prudente.
Quella mattina la ragazza era partita di buon’ora insieme ad un compagno di cordata. Il progetto per quella giornata era di salire su una delle “torri” della Civetta, l’eccezionale, imponente montagna, ricca di sfaccettature e quinte nascoste che si ergeva davanti al rifugio. Conosceva Elsa da diverso tempo, la sua immagine lo consolava quando l’accostava agli escursionisti giungevano al rifugio. Se pur erano molte le donne che salivano lassù, Elsa era speciale. Giovane come lo si può essere a 23 anni, vantava una solida preparazione tecnica ed atletica. Gliel’aveva raccontata ed essa traspariva dai suoi modi. Viaggiava con l’equipaggiamento indispensabile di chi ama la montagna, al contrario di quei turisti sfiniti zavorrati di zaini stipati all’inverosimile. Il desiderio d’essere leggera le derivava senza dubbio dalla levità del suo animo. Ella rifuggiva gli orpelli, le superficialità, tutto quanto era considerato indispensabile ed era al contrario inutile. Lo sorprendeva perché era una ragazza così moderna, capace di usare il telefonino come fosse un computer, di parlare due lingue, d’aver superato uno ad uno gli esami universitari ed essere ormai prossima alla laurea. Gli aveva confidato di volersi specializzare in diritto ambientale perché, erano state queste le sue parole «la montagna ha bisogno di qualcuno che la difenda».
Vantava una ferrea formazione. Le passeggiate sui sentieri alpini sin da bambina, nonostante fosse figlia della città, quindi la scuola di roccia e di arrampicata del Cai inframmezzata dalle escursioni, seguite dalle ascensioni sempre più impegnative. La montagna non la spaventava, anzi era la sfida nella quale metteva alla prova sé stessa. Con il buon senso di fermarsi e retrocedere quando capiva che non si poteva andare avanti. Sapeva bene che in montagna il coraggio consiste pure nella rinuncia.
Accanto a sé aveva il binocolo. Un modello antiquato che comunque gli avrebbe permesso di lì a poco di vedere Elsa sbucare da una delle quinte nascoste della Civetta, avanzando con calma. Uno spettacolo che l’avrebbe distolto dall’orda turistica che stava giungendo.

Eccola lì Elsa! Un minuscolo essere vestito di rosso che si stagliava sulla magnifica parete rocciosa, il compagno di cordata poco più su. Ammirava la lenta e metodica arrampicata, la cura con la quale cercavano gli appigli, piantavano i chiodi, tiravano la corda. Non c’era alcuna fretta nei loro gesti. Li guardava incantato e fu con stupefatto orrore che vide qualcosa staccarsi dalla parte superiore della parete. Dapprima qualche pietra, poi un grosso masso. Che colpì giusto uno dei chiodi che tenevano la corda di Elsa. La giovane venne sbalzata via; la corda la tenne ma non impedì un volo di alcuni metri, non fermò quel corpo che penzolava, quella testa che sbatteva contro le rocce. Il cuore impietrito dall’orrore, riuscì comunque a precipitarsi dentro al rifugio urlando “chiamate i soccorsi”. Il gestore capì al volo: se quel vecchio taciturno pronunciava una frase simile, le cose erano gravi per davvero. E diede l’allarme. Di lì a pochi minuti apparve all’orizzonte l’elicottero del Soccorso Alpino. Calatisi con un verricello, i soccorritori riuscirono ad agganciare Elsa che nel frattempo era stata deposta su una cengia dal compagno di cordata. L’elicottero riprese quota allontanandosi veloce. Al rifugio calarono il silenzio, la tristezza per quella tragedia della montagna ancor più assurda, perché provocata non dall’imperizia o dalle temerarietà, bensì dal Fato.
“NOOOOO!!!”
Il grido rabbioso del vecchio alpino rimbalzò sulle aspre pareti della Civetta, perpetuandosi all’infinito da una cengia all’altra, da un canalone all’altro, da una torre all’altra. No! Elsa non poteva, non doveva morire.

Nella stanza immacolata dell’immenso ospedale, ove era facile perdere l’orientamento, l’alpino osservava la giovane donna distesa nel letto. Il capo non era più fasciato; i capelli rasi ora ricominciavano a crescere, una tenera peluria che assomigliava al mantello d’un gattino appena nato. L’intervento di chirurgia d’urgenza alla testa, alla quale era stata sottoposta dopo l’incidente, aveva avuto successo, a detta dei medici. L’ematoma che si era formato era stato rimosso in tempi tutto sommato brevi, prima che esso premesse in modo preoccupante sul cervello. Ma Elsa non si era svegliata. Coma profondo, coma vigile, Pietro l’alpino neppure ricordava più come veniva definita dai dottori quella condizione. La ragazza alternava cicli di veglia a cicli di sonno, apriva gli occhi guardando senza vedere, non parlava, non si muoveva. I genitori, la sorella, gli amici si alternavano senza soste al suo capezzale. Le parlavano, le facevano ascoltare della musica, portavano Erasmo, l’amatissimo cane bassotto della ragazza, nella speranza di trovare quella scintilla che riuscisse a far scattare in lei l’interruttore della vita.
I medici non parlavano, non solleticavano pie illusioni: Elsa poteva rimanere così per anni.
Pietro aveva cominciato dapprima a farle visita subito dopo l’operazione per informarsi con i genitori sull’esito dell’intervento. Quella visita era divenuta un appuntamento quotidiano. Sedeva accanto al letto, talvolta le teneva una mano. Fu così che lui, il vecchio alpino, cominciò a raccontare. La voce sommessa, pacata, parlava: delle vicende della guerra, della Russia. Narrava della contadina e dell’isba, della neve, dei compagni perduti. Soprattutto, narrava della montagna. Dalle sue parole traspariva tutto l’amore per le vette inviolate, per le cime dorate dal sole al tramonto, per la neve che scendeva silenziosa. Descriveva ad Elsa le montagne che conosceva, parlando alla giovane, stesa immobile, della maestosità di questa parte del Creato. Voleva far vedere ad Elsa ciò che adesso i suoi occhi ora immobili non vedevano: lo spettacolo che la montagna sapeva dare. Era stato, molti anni prima, al Rifugio Tuckett, nell’alta Vallesinella. Le raccontò di quell’escursione, compiuta buona parte avvolto nella nebbia mattutina. Le parlò d’un ruscello d’alta montagna che scorreva, chiacchierino, su nell’alta Valle Aurina, ai piedi della Vetta d’Italia. I suoi soggetti preferiti erano le Dolomiti. Dal Sella alla Marmolada, dalle Pale di San Martino alle Tofane, dal Pelmo alla sua amatissima Civetta. La montagna era un’inesauribile fonte narrativa. Nell’immenso ospedale dove gli ammalati erano spesso numeri appaiati ai numeri delle terapie, il vecchio alpino scavò una breccia profonda negli animi di medici ed infermieri: si poteva toccare con mano il rispetto che suscitava intorno a sé.

In quell’inverno sempre più freddo la sera cadeva presto. Pietro osservava le luci della città dalla cameretta. Elsa stava immobile, il volto affinato dalla sofferenza, le mani diventate trasparenti, parevano d’alabastro. C’era stato un peggioramento negli ultimi tempi, i medici erano preoccupati. Pietro le prese la mano. Non sapeva che fare, non poteva far altro che raccontare. Ancora una volta parlò della Civetta; dei suoi rifugi, delle pareti, dei bastioni e delle torri senza pari. Raccontava accorato quando percepì un tremito dalla mano che teneva. Proseguì nel racconto, il cuore in tumulto. «Pietro – la voce fioca, che pareva giungere da un’altra dimensione, era quella di Elsa. Pietro, vai avanti ti prego». La gola attanagliata da un nodo, il vecchio alpino si fece forza. «Pietro – riprese la voce – raccontami del rifugio più antico …». Gli occhi della ragazza stavolta, guardandolo, lo vedevano. Erano vividi e vigili. Sapeva di doversi alzare, di dover correre a chiamare un medico, un’infermiera….. «Pietro, se sapessi quante volte sono stata per scivolare via … era facile lasciare, lottare è così faticoso, così duro, così tremendo – Elsa lo guardò rinfrancata, le sue guance avevano ripreso colore. Sono stati  i tuoi racconti delle montagne, le vedute che mi lasciavi immaginare ad aiutarmi a tener duro. Le tue parole sono state la corda della mia salvezza, mi sono arrampicata su esse per ritornare alla vita». Sul volto di Pietro, sulle rughe bruciate dal sole e dalla guerra, scese solitaria una lacrima. Dal cuore del vecchio alpino salì spontanea al Cielo una preghiera: grazie, o Signore delle Cime, per averci restituito Elsa, innamorata delle Tue montagne.
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