Il rosario - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il rosario

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Terzo classificato

Il rosario

di Dal Mas Gianfranco - San Fior (TV)



Dai Irina, comincia, è ora.
Non mi alzerò più da questo letto ormai. Faccio fatica ad andarmene, non ci sono più con il fisico ma dicono che il cuore è forte e non vuol cedere.
Oltre la finestra, un tetto con un comignolo da cui escono folate di fumo dalla mattina alla sera in questo inverno che sembra non finire, ed una fetta di cielo che da giorni è sempre plumbeo. E’ il quadro che accompagna la mia esistenza.
C’era sempre Nàida, due anni fa se l’è portata via un cancro. Alla morte di sua madre, spentasi dopo anni di silenzio, di nulla e lo sguardo vuoto, si era dedicata solo a me. Dio non doveva farmi questo.
Ora mi assiste Irina, viene dalla Russia.
Nàida. Quando l’avevo portata da Don Angelo per battezzarla lui non ne voleva sapere, non era un nome dei nostri, nessuna santa portava questo nome, nessuna santa l’avrebbe protetta. “Chiamala Giulia, Lucia, Rosa, Gemma come tua madre, Anna come tua zia”, insisteva.
Nàida, o me la riportavo a casa e sarebbe cresciuta anche senza battesimo.
Nessuno, nemmeno sua madre seppero mai il perché di questo nome.
“Non bestemmiare che vai all’inferno” mi diceva don Angelo. Ma i Sandri bestemmiavano tutti giù nella grande casa sopra la conca circondata da quella campagna che non era una campagna ma una immensa pietraia dove non arrivava la pioggia e nemmeno l’acqua dei canali. Era una terra dura da lavorare ed il lavoro era condito da sudore e bestemmie.
E poi che ne sapeva don Angelo dell’inferno?
Nàida. Sua madre l’avevo conosciuta qualche giorno dopo il ritorno dalla prigionia. Ero tornato dalla Russia nel dicembre del ‘45, avanti e indietro sui treni per la Siberia e per mezza Europa. Erano in tanti ad aspettarmi alla stazione di Conegliano, mi avevano caricato su un calesse col cavallo ed imboccata la strada che conduceva in paese erano partite le campane, un doppio, quello che si sentiva solo nelle grandi feste. Il giorno dopo era tutta una processione di paesani che volevano vedermi e salutarmi che mi pareva d’essere la Madonna di Motta. Nessuno mi aspettava più ed anche mia madre mi credeva morto, tutti contenti, anche se qualcuno non riusciva a dissimulare la difficoltà a riconoscere il Tullio di quattro anni prima. Era arrivato anche don Angelo con una bottiglia di vin santo, quello speciale della messa. Una festa.
Ma i giorni successivi era stata ben altra la processione, arrivava gente dai paesi vicini ma anche da oltre il Piave, gente che faceva domande e voleva sapere. Arrivò anche una donna magrissima, un fazzoletto nero sui capelli, era accompagnata dalla figlia. Mi misero davanti la foto di un giovane sorridente. Feci di no con la testa.
Pareva una festa quella domenica di primavera alla stazione di Conegliano, c’erano tanti amici a salutarci. In sette del paese rientravamo in caserma da una licenza speciale prima di partire per la Russia. Si andava e si tornava presto, ci avevano detto.
Sei giorni di treno e poi con mezzi militari fino al fronte sul Don, dove ero assegnato al reparto viveri e munizioni. Il mio compito consisteva in viaggi di rifornimento verso la prima linea, una pacchia, ma una noia mortale, il tempo che non passava mai. Prima il caldo e la polvere che non ti facevano respirare, poi cominciò il freddo, un freddo che giù nella conca dei Sandri, il posto più freddo della campagna, non avrebbero nemmeno mai potuto immaginare. Mai visto un russo, né un tedesco.
A metà dicembre, improvviso, l’ordine di ripiegare, la fuga precipitosa.
Una colonna infinita di uomini nella steppa cristallizzata dal gelo della notte, il silenzio rotto dallo sbuffare dei muli ed il cigolare delle slitte. All’alba, raffiche improvvise di mitraglia, provenienti da tiratori invisibili appostati su una collina, seminarono il panico. I muli, imbizzarriti dal trambusto, partirono lanciandosi al galoppo e trascinando le slitte. In questa fuga disordinata ognuno prese una sua direzione, e la colonna si disgregò.
Ci trovammo in dieci, camminammo tre giorni e tre notti. La bufera batteva tutto il giorno ma sembrava stemperarsi con l’arrivo delle tenebre. Le notti erano allucinanti, smarriti nel silenzio immenso, lugubre ed abissale di quel mare di ghiaccio, dove si rifletteva un cielo luminosissimo, un mare di stelle.
Poi la fame ci spinse verso un villaggio che appariva stranamente silenzioso. Ci avvicinammo guardinghi ad un’isba un po’ isolata dal cui interno cominciò a crepitare la mitragliatrice. Una fitta improvvisa, una scheggia mi aveva colpito alla gamba destra, procurandomi una vasta lacerazione. E mentre cercavo di tamponare il sangue che usciva dalla ferita, mi trovai circondato da uomini vestiti di bianco, sbucati da chissà dove, che mi puntavano contro il parabellum. Tre dei miei compagni giacevano esanimi nella neve, pochi attimi dopo marciavo assieme agli altri con le mani sulla testa verso le isbe. Poi arrivarono a centinaia e centinaia altri italiani catturati, capii che era tutto finito.
I prigionieri furono incolonnati e cominciò la marcia.
Perdevo sangue, non riuscivo a camminare e volevo fermarmi. Fu allora che Antonio, un alpino che non avevo mai visto prima, mi sorresse, mi trascinò, mi portò sulle spalle, mi convinse a non mollare.
Procedemmo senza parlare, inebetiti dal sonno, dal freddo e dalla fame. Non so quanto durò quella marcia sulla neve. Camminavamo ininterrottamente di giorno, la sera ci fermavamo al centro di un villaggio, ammucchiati come un gregge, sperando invano che qualcuno portasse da mangiare. La notte la passavamo all’addiaccio, venti, trenta gradi sotto zero. In gruppi di quattro ci toglievamo i pastrani che, abbottonati l’un l’altro, formavano una specie di tenda, dentro stavamo abbracciati per non morire di freddo, un freddo che penetrava intenso nelle ossa. La fame mordeva lo stomaco e non ci faceva dormire. La mattina la marcia riprendeva, fame, sonno e disperazione sempre più cupa. Durante il cammino ingoiavo neve, nell’assurda speranza che questa potesse placare i morsi della fame.
Una sera qualcuno disse che quella era la notte di Natale. Quella notte io non pensai al presepio di casa, alla chiesa dove don Angelo intonava le pastorelle natalizie accompagnate dal soffio dolce dell’organo, quella notte pensai all’intruglio schifoso che mia madre portava al maiale di casa.
No, don Angelo, tu non hai mai saputo cos’è l’inferno.
I nostri guardiani erano giovani spietati. Quando qualcuno si attardava o cadeva a terra stremato, veniva finito con un colpo alla nuca ed abbandonato sulla neve. Era per questo che Antonio mi stava sempre a fianco pronto a sorreggermi quando vedeva che stavo per cedere. Di tanto in tanto incontravamo dei civili che ci urlavano frasi incomprensibili accompagnate da sputi. Le ragazze invece ci mandavano un furtivo saluto ed un melanconico sorriso.
Arrivammo allo scalo ferroviario di una città sommersa dalla neve, dove fummo caricati su carri bestiame completamente vuoti. Stipati peggio delle bestie, la porta scorrevole fu chiusa e per dieci giorni mai più riaperta.
Quel viaggio fu eterno e spaventoso. Entrava solo un flebile filo di luce dalle fessure delle finestrelle in alto. Attraverso le stesse ogni giorno qualcuno lanciava del pesce secco. Tormento ancora maggiore della fame era la sete, che cercavamo di spegnere leccando a turno le borchie alle pareti del vagone, incrostate di brina.
Disperazione e rabbia, pianti, urla e silenzi. L’eccitazione improvvisa al momento della divisione del pesce, poi di nuovo silenzio, urla e bestemmie. Bestemmie contro il padreterno, santi e madonne, imprecazioni contro il Duce, Hitler, il mondo.

Ma ogni sera Antonio intonava il rosario. E allora pregavano tutti, anche i bestemmiatori più incalliti, anche quelli che non avevano mai pregato.
Quando le porte vennero aperte, quelli che scesero dai carri bestiame non erano più uomini. Un’altra lunga marcia ci portò in un immenso lager dentro ad un bosco.
Qui subii l’ennesima perquisizione da parte di una brutale sentinella che, irritata per non avermi trovato più nulla addosso, non esitò a depredarmi di tutto ciò di cui ero vestito, lasciandomi completamente ignudo. Rimasi inebetito ed impietrito dal gelo, di che avrei potuto vestirmi se anche i cadaveri che giacevano nel campo erano stati spogliati di tutto?
Giunse una ragazza bruna che aveva assistito alla scena. I suoi capelli erano raccolti in due lunghe trecce, aveva gli occhi verdi e tristi. Si chiamava Nàida, era la figlia del comandante del campo e mi coprì con una delle calde divise felpate del padre. Quella sarebbe diventata la mia divisa per i tre lunghi anni di prigionia.

Quelli che erano stati falciati durante la cattura, quelli che nella terribile marcia erano rimasti per sempre nella neve, quelli che non erano più scesi dal treno ed erano stati accatastati in fondo a quel vagone maledetto. Ma la strage più grande avvenne le prime settimane nel lager, quando alla fame si aggiunsero le malattie, ed i prigionieri cominciarono a morire come mosche.
Fu la morte anche per Antonio. Dal suo fetido giaciglio di paglia nell’ultimo momento di lucidità mi chiese, se mai fossi tornato in Italia, di andare a salutare sua madre a Santa Croce del Montello.
Dopo due mesi l’inferno prevedeva un altro girone, la Siberia. Prima di lasciare il campo riuscii a salutare Nàida e le giurai che finita la guerra sarei tornato in Russia a sposarla. Lei mi guardava senza parole, gli occhi tristi.   
Avevo promesso ad Antonio che sarei andato da sua madre a salutarla. Da Santa Croce del Montello era venuta sua madre a cercarmi, mi aveva mostrato la sua foto, avevo rivisto quel viso caro ed amato e avevo fatto no con la testa.
Voi non sapete cos’è l’inferno.
Tornò ancora la madre di Antonio, il mio fisico era molto provato, con il tempo, pensava, qualcosa mi sarebbe tornato alla mente, chissà…. Dissi sempre di no.  
Con la madre c’era sempre Maria, la sorella di Antonio. Il suo viso era buono e dolce. Avvertii che quella presenza era la prima ad ammorbidire il mio cuore divenuto di pietra.
La sposai l’anno dopo nella piccola chiesa di Santa Croce. Il giorno del matrimonio le feci giurare che non mi avrebbe mai fatto domande sulla Russia. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno, Maria non chiedeva mai nulla, era buona e dolce, dolce come le balze della sua terra.
La vita riprese, arrivò Nàida. Tutti dimenticarono la guerra e la Russia, poi arrivarono gli anni in cui tutti vollero sapere. Vennero a chiedermi come e perché. Ma l’inferno, chi l’ha vissuto, perché lo deve anche raccontare?
Basta con la Russia, che nessuno me la nominasse, che se ne stessero lontani tutti, loro, le loro medaglie, le loro pergamene. Mi feci la fama di quello che aveva rimosso ogni ricordo della Russia e della prigionia.
Ma la Russia non mi abbandonava, ce l’avevo dentro, la Russia continuava a riempire le mie notti, i miei sogni ed i miei incubi.
Era per questo che don Angelo non mi aveva più visto alla messa su nella vecchia pieve. Sul muro della chiesa la lapide dei caduti della prima guerra era stata affiancata da quella con l’elenco dei morti della seconda. Tra le foto, sei con una sola data a fianco del nome, gli amici partiti con me dalla stazione di Conegliano, quella radiosa domenica di primavera.
Oltre la finestra della mia camera vedo un tetto ed un comignolo ed un pezzo di cielo pieno di nuvole scure.
Irina è l’unica presenza. Nel suo volto ho ritrovato l’amorevole tristezza che accomuna tutte le donne russe, di quella terra maledetta dove gli uomini parevano bestie e le donne avevano lo sguardo buono e triste. A lei ho raccontato la mia storia, quella che non ho mai raccontato a nessuno, quella che non avevo saputo raccontare né a Maria né a Nàida. L’ho raccontata a lei perché solo lei poteva capire.
Ed ogni sera con Irina recito il rosario. E’ lei a cominciare con il segno della croce e le avemaria, e mi par di essere sul treno quando Antonio intonava il rosario ed era l’unico momento in cui l’inferno si quietava. Affiorano allora nella mia anima immagini nitide ed indelebili: il biancore della steppa, i silenzi immensi, rotti dallo stridere della neve sotto i piedi, e quelle stelle che sembravano scintille nel grande cielo di Russia.
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