Il raboso del Piave e il Ragazzo del '99 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il raboso del Piave e il Ragazzo del '99

Tutte le edizioni > Edizione17
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2012
Segnalato

Il Raboso del Piave e il Ragazzo del '99

di Roberto Cipolato - Funo di Argelato (BO)



“Quella non gliela posso proprio dare”. La risposta del vecchio era gentile ma ferma. La mia ricetta di risotto ai funghi voleva un vino schietto come compagno e quella  bottiglia di raboso che vedevo sullo scaffale sembrava perfetta. ”Le do tutta la cantina se vuole ma questa del 15 no”. Lo guardai un pò deluso, ormai quella di cercare da solo il vino migliore era diventata una parte irrinunciabile e allo stesso tempo gratificante del mio lavoro di chef, da quella volta che un vino triste mandò in malora una cena importante. L'uomo continuò ad asciugarare dei bicchieri con un canovaccio, guardandomi in silenzio. Li posò sul ripiano e poi tagliò qualche fetta di salame. Indugiò con la mano lungo una fila interminabile di bottiglie, ne scelse una pulendola appena dalla polvere e mi fece cenno di seguirlo. Uscimmo sul retro di quella rustica cantina persa da qualche parte sui colli sopra Conegliano. L'anziano si chiamava Vittorio e di anni doveva averne veramente parecchi. Mi passò bottiglia e bicchieri e cominciammo a salire lungo un sentiero che tagliava a mezza costa la collina. Camminava lentamente, un pò incurvato dall'età. Uno zefiro da ponente gli scompigliava dolcemente la testa canuta ancora incredibilmente folta. Mi chiese di cosa mi occupavo e se ero capitato lì per caso visto che ormai la sua cantina non era più aperta al pubblico. “Ho chiesto giù in paese, e tutti mi hanno detto che se volevo non solo del buon vino dovevo salire sin quassù, la cosa mi ha incuriosito”. Il vecchio sorrrise, il suo temperamento era deciso ma tutt'altro che burbero, non te lo aspettavi da un uomo così avanti negli anni, poneva le domande per il gusto autentico di sapere il parere delle altre persone, di come la pensavano. Camminammo per alcuni minuti e quasi senza accorgermene mi trovai immerso in un paesaggio bucolico dove i vigneti digradavano dolcemente verso valle perdendosi nella foschia estiva della pianura. Ci sedemmo attorno ad un tavolaccio piazzato in mezzo al verde. Un sorso di  vino genuino e l’aspettativa di una piacevole chiacchierata tra i vigneti di queste colline. Mentre parlava, i  suoi occhi azzurri slavati dagli anni a volte ti fissavano guardandoti dentro, a volte andavano oltre, fissando un punto indefinito all'orizzonte lungo i percorsi della sua memoria. Le sue frasi  erano spesso interrotte da lunghe pause, cavate a cercar ricordi. Mentre lo ascoltavo, mi accorsi che dal suo modo di raccontare semplice e diretto avevo il tempo di riflettere. E così mi perdo nelle sue frasi  dove ogni singola parola assumeva  importanza e dignità. Non sono  più un famoso chef alla ricerca di vini genuini da accompagnare a ricette esclusive, ma anonimo viandante che ascolta la storia raccontata da un uomo che ne ha fatto parte. Una storia aspra e dolce allo stesso tempo, come quest’uva, e dura come questa terra mai domata. “Sa, la bottiglia che lei voleva era destinata alla mensa ufficiali, il vino per noi fanti era poco più di acqua sporca. Il carretto delle salmerie fu colpito in pieno da un obice ma quella bottiglia rimase sana e mi rotolò vicino. La portai in trincea e subito iniziò il bombardamento. Non potevamo far niente, solo aspettare,  il fuoco austriaco era troppo intenso. La cosa più tremenda era l'attesa, non il fango o il freddo. Si arrivava a desiderare  il fischietto degli ufficiali che ci comandavano all’attacco pur di farla finita, ma non avevano ancora dato l'ordine di metter su la baionetta. Stavamo in silenzio, rannicchiati nel fango a cercar riparo tra le cassette di munizioni e a pensare a chi  sarebbe tornato da quell'assalto. Qualcuno, tra i più vecchi, dettava qualche riga al capellano militare. Con quelli del mio plotone eravamo pronti con il gavettino, un’altra botta e poi l’apro mi dicevo. Il tenente della mia compagnia mi guardò male  ma poi sorrise, in  fin dei conti ero il più giovane in quella trincea. La tenevo per il gran finale quella bottiglia, erano momenti brutti, tremendi e interminabili. Ma  non l’ho mai aperta, quando la guerra è finita me la son portata con me e ogni volta che la vita passava a tormentarmi aprivo la credenza ma poi la richiudevo. Ho sempre voluto riservarla per qualcosa di speciale ma  ripensavo alla trincea, ai miei compagni, a quelli che son morti e per che cosa hanno dato la vita…”  Fece una lunga pausa passandosi una mano sulla faccia a coprirsi gli occhi mentre ricordava cose che io potevo solo immaginare. “ Ogni tanto ascolto la radio e quando sento cosa sta succedendo adesso nel mondo e  nel nostro paese,  tra nord e  sud. Sa cosa penso? che abbiamo perso il senso della misura un po’ in tutte le cose. E’ sempre colpa di qualcun altro, ci siamo fermati a criticare e basta e così questa Italia s’è impoverita. Chi era con me a respingere gli austriaci si chiamava Toni, ma anche Pietro e Salvatore. Redipuglia non è poi così distante da qui, vada a vedere chi erano gli italiani di allora. Non eravamo eroi, molti di noi non sapevano nemmeno perchè si trovavano  lì a combattere, altri erano incoscienti o addirittura entusiasti. Ma queste montagne  hanno visto troppo sangue e forse non ne è valsa la pena. Fino a ventanni fa riuscivo a fare lunghe passeggiate in montagna, sul Grappa, sull’Ortigara. Andavo da solo, per ricordare, assieme con i miei fantasmi. Adesso le mie montagne sono queste colline, e in mezzo ai vigneti vedo il viso di quelli che erano la con me, risento le loro voci, quando si scherzava, ma anche le urla di sofferenza di chi era ferito o stava morendo. Tutto era  assurdo in trincea, invece quella  bottiglia era l'unica cosa che sapeva di bello, che non parlava di morte  e così mi ci  sono aggrappato. A guerra  finita mi sono dedicato a questo, a tirar su vigne, a tirar su vita". Passeggiammo a lungo tra i filari, mi mostrò orgoglioso i diversi vitigni che accudiva con amorevole cura, anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia. Ogni pochi passi si fermava a metter a posto qualcosa. Sistemò alcuni  tralci con la delicatezza di  un amante che  scosta un ricciolo dal viso di una donna  e tolse da terra  qualche filo di gramigna  a me invisibile. Sembrava un pittore che alla fine dell'opera osserva il suo dipinto e da qualche lieve pennellata di ritocco alla ricerca della perfezione. Guardavo i suoi gesti, lenti e misurati. Erano i gesti di chi aveva passato la maggior parte della vita a contatto con la natura e adattato il proprio vivere al mutare delle stagioni ed alle avversità del tempo. Nel suo lento incedere permeava il senso relativo che dava alle cose dopo ciò che aveva vissuto, come se accettasse l'ineluttabilità del tempo ma senza perdere la voglia di fare. Mi trovai a pensare ai ritmi frenetici di adesso e alle mode del momento che pubblicizzano costosi resort per togliere l'ansia, per poi ricacciarci in un mondo dai ritmi non più umani, come galline in batteria. In questa inaspettata passeggiata su per la collina ritrovavo un po’ anche me stesso. Il suo cruccio erano gli incroci: "Anche se questa è la zona del prosecco, ho avuto buone soddisfazioni con dei robusti rossi toscani, ma con i bianchi è un'altra cosa." Aveva un puntiglio per il grechetto della valdichiana che un suo ex commilitone dalle parti di Arezzo gli aveva portato in regalo negli anni trenta "Tieni mi aveva detto. Questo è vino. Non quella brodaglia che voi veneti mi avete fatto bere durante la guerra spacciandola per ambrosia..." Tornammo a sederci, lo ascoltai per un’ora buona, quando finì di parlare i suoi occhi erano umidi ma l'espressione del viso  orgogliosa. A dispetto degli anni si alzò quasi di scatto: “Lasciamo perdere il 1915, venga, le insegno un segreto” e rientrammo in cantina. “Il raboso, se lo invecchia in botti di rovere piccole come questa magnifica il suo gusto" battè con soddisfazione  la mano sul legno. "Ma non vada oltre i dieci anni, rimarrebbe solo una vecchia bottiglia, anche per questo non le ho dato quella del 15” aggiunse sorridendo. Perso com’ero nei suoi racconti e nell’entusiasmo con cui mi regalava  quei preziosi consigli non mi accorsi del tempo trascorso. Ormai si era fatta sera, Vittorio si zittì di colpo. Aveva l’aria stanca, la sua giornata volgeva al termine. Mi accompagnò alla macchina infilando nel baule un prezioso refosco del 1962. Presi mano al portafoglio. "Non voglio niente, un centenario lo ascoltano in pochi, è solo un vecchio baule di  stanchi ricordi e chiacchierare mi ha fatto piacere ".  Dallo specchietto lo vidi salutarmi con la mano, sul suo volto un sorriso di mille tristezze, ebbi la sensazione che salutava la vita. Tornai a trovarlo qualche settimana dopo ma se n’era andato per sempre.
Ancora oggi ho dei dubbi su quella giornata. Forse fu solo un sogno, tanto impalpabile quanto è presente in me il senso di serenità che mi regalò l’incontro con quel vecchio, se non fosse per questa bottiglia di refosco…
I funghi porcini, raccolti in un bosco di querce, hanno un piacevole odore appena percettibile di terra muschiata. Attendo che si indorino a fuoco lento e sorseggio il vino che mi hai regalato. Ripenso alla tua ultima  frase  nel vigneto, mentre accarezzi i grappoli maturi baciati dal tiepido sole di fine estate ormai pronti per la vendemmia. Le parole  smorzate dai ricordi, la  voce screziata dalla vita: “Noi uomini sappiamo metter cura, amore e  passione ma  poi… “E penso ai buoni  aggettivi che l’uomo quando non distrugge sa ricavare dalle cose, anche da questo fantastico nettare, al bel color rubino, ai riflessi granati, al suo splendido  bouquet, ampio e pieno che ricorda le violette di campo… ed in silenzio sollevo il calice e brindo a te ragazzo del 99, alla bottiglia che non hai mai aperto e alla Tua vita che non è stata sempre ciò che volevi perché la mia fosse migliore.  
Quando te ne sei andato avevo solo dieci anni. Ho raccontato questa storia perché sulla Grande Guerra non hai mai voluto raccontarmi niente malgrado le mie cocciute insistenze e quando da piccolo ruppi la teca con le tue medaglie non ti arrabbiasti ma le ponesti prudentemente un po’ più in alto. Mi è rimasto forte e indelebile il ricordo dei tuoi profondi occhi azzurri davanti alle mie domande che nel silenzio delle risposte mai date allora, mi sono invece adesso chiare come l’acqua del Piave che attraversasti da ragazzo con uno zaino sulle spalle ed un fucile a tracolla, in un mese di giugno di tanti anni fa verso l'alba  di un giorno migliore.
Dedicato a mio nonno, ragazzo del 99
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