Il Cappello del Nonno - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il Cappello del Nonno

Tutte le edizioni > Edizione09
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Segnalato

Il cappello del nonno

di Pieraugusto De Pin - Arcade (TV)



"Ra-Rau-Rauscedo", biascicava nonno Augusto quando la nebbia gli saliva al cervello e lo coglieva solo e cieco, nella sua stanza da letto, affacciata sul cortile della grande casa colonica. Il sole filtrava dalla finestra scaldandogli le mani, ma lui, ormai, il sole non lo vedeva da anni. Era l’oscurità invece a fargli compagnia e a portare con sé i fantasmi della sua vita passata, fatta di fatiche e rinunce.
"Ra-Rau-Rauscedo" continuava a ripetere ad alta voce, quasi fosse una litania, fintantoché non ci sentiva arrivare.
Da qualche tempo infatti, la meta dell’uscita domenicale della nostra famiglia, era la casa del nonno, adagiata tra i vigneti e i dolci pendii della collina Solighese.
Il nonno aspettava con ansia di sentire le voci della figlia, del  genero e dei nipoti, per uscire dalla sua apatia malinconica.
"Son Pierino, Pierino della Maria, no te te ricorda più de mi, nono? – gli dicevo abbracciandolo – vegne a trovarte ogni festa!".
Al che lui si riaveva, tornava in sé, e, con le lacrime che gli rigavano il volto scarno e pallido, mi diceva: "Manco mal che te se tornà a trovarme fiol. Son sempre qua mi e mi sol e no ghe vede pìù".
Nonno Augusto era della classe 1896 e andava su per i novant’anni. Aveva perduto la vista un po’ per volta, forse a causa delle cataratte trascurate, e ora, trascorreva le sue giornate su una sedia, accanto alla sua Tilde, davanti alla finestra.
Neanche nonna Tilde però, lei pure ottuagenaria, riusciva a distrarlo dal suo umor nero. "Ndemo Gusto, sta contento, no te vede che i vien a trovarte tuti. Te se sempre drio a lamentarte…"
Ma lui, continuando a seguire il filo dei suoi pensieri, replicava: "Se stea mejo su la terza Tofana, a vinti ani, in mezo a la tormenta, inveze che ades, qua su na carega, senza oci".
Mio Nonno era stato un contadino tenace e creativo, di quelli che s’ingegnavano a farsi gli utensili da sé. Mi piaceva un mondo stare ad osservarlo mentre scaldava al fuoco delle pertiche di legno, di salice, olmo o castagno, che poi trasformava in manici di rastrello, di vanga, o in pioli di una scala. La sua officina era la stalla, la sua sedia da lavoro il “banchet“ che gli serviva anche per mungere le mucche: la Bruna, la Mora, la Alba… che, durante la stagione estiva, spediva al pascolo, in Alpago.
Nelle lunghe sere d’inverno, al chiaro dell’unica lampadina che emanava una fioca luce d’intorno mi spiegava, passo passo, come si ricavano le forcelle dei rastrelli e come si mettono assieme le frasche di sanguinella per farne scope. “Pierino, sta lontan dal fogo… va a torme a trivèa par far i busi… varda che bèa zésta che ven fat “.
Gusto era nato in quel di Sarmede, sulla collina vittoriese e aveva un debole per la montagna. La montagna l’aveva incontrata da giovanissimo, per lavoro, al seguito dei segantini che partivano dalla pianura trevigiana e andavano a fare la stagione in Cadore chiamati a falciare immense distese d’erba, per un magro salario. Si alzavano all’alba e potevi vederli, disposti in formazione, che mulinavano le braccia nel gesto ritmico del falciare. “Segar erba l’è un’arte – mi ripeteva nonno Augusto quando pretendevo che mi facesse provare a usare la sua falce – bisogna imparar a tegner in man el falcar, se no se rompe el faldin “.
Subito dopo i prati del Cadore, Augusto vide la maestosità delle Alpi Svizzere, che dovette valicare, non ancora diciottenne, da emigrante, per andare a spaccarsi la schiena in miniera.
"Come va oggi nonno?" , gli domandai sistemando la mia sedia accanto alla sua. "Male, male Pierino. Non so se arrivo a stasera…".
“Nonno, raccontami qualcosa“ lo provocavo…
Fin da piccolo ero molto attratto dai racconti del nonno. E lui che lo sapeva, mi deliziava con le sue storie, continuando a piallare le assi per il nuovo pollaio o raschiando il fondo degli zoccoli, mentre io lo seguivo da vicino, come un’ombra, incantato. Ora che era cieco, mi prendeva per un braccio e mi diceva piano: "ascolta, te conto l’ultima".
Abitualmente portava pantaloni di velluto marroni, una camicia di flanella e il gilet, con al taschino l’orologio a cipolla che ogni tanto estraeva per controllare l’ora. Nelle tasche dei calzoni teneva la tabacchiera di osso e dei bei fazzolettoni rossi, che, dopo le proverbiali fiutate, estraeva e spiegava con meccanica precisione per lasciar sfogare l’immancabile starnuto. In testa sempre l’inseparabile cappello che si toglieva solo al momento di mettersi a tavola.
La domenica indossava un Borsalino di gran classe, che normalmente, custodiva in una scatola cilindrica dentro l’armadio. Nei campi si calcava sulla testa di radi capelli il tipico cappello di paglia logoro e intriso di sudore. Dentro casa un cappello di feltro senza pretese.
Ma quello che mi affascinava di più in assoluto era il cappello con la penna nera, che teneva in bella mostra sul comò e mi lasciava solo contemplare, mai toccare.
Alcuni anni dopo toccò a me indossare un cappello simile, quando fui inquadrato nell’11° Battaglione Val Tagliamento, di stanza a Tolmezzo. Non erano più anni di guerra i miei, anche se le "Brigate Rosse" assaltavano le armerie delle caserme; e non c’erano da conquistare le montagne del Carso, ma soltanto da vincere le sfide tra battaglioni a chi arrivava prima in cima al monte Canin, per la gloria del Colonnello D’Andrea.
La prima volta che misi il cappello d’alpino il pensiero corse a nonno Augusto che già riposava da qualche anno nel cimitero di Susegana.
Mi raccontava spesso la sua Grande Guerra, tutta combattuta in montagna.
Aveva solo 19 anni quando ricevette la cartolina di precetto, direttamente in Svizzera, dov’era emigrato, e fu arruolato nell’8° Reggimento Alpini che era schierato sulle Tofane, in fronte agli austriaci a 2500 metri di quota. Di notte la temperatura toccava in inverno anche meno 30 gradi e si doveva lavorare di piccone ed esplosivo per scavare trincee nella nuda roccia; i turni di guardia erano di 10 minuti l’uno e il cordiale era la bevanda più diffusa. "La barba e i mostaci i deventea de jaz, le rece e le man parea che le te saltese via" diceva, mimando il gesto di scavare. "Sedese mesi ho fat su la Tofana, senza mai vegner zo". Mentre raccontava, il suo sguardo si accendeva e gli occhi umidi gli luccicavano lasciando soltanto intravedere il convulso di emozioni che vi si rifletteva. "Un dì me son dat par disperso. I me ciamea - Zanette… Zanette - ma mi me ere scondest dentro na botte co na botilia de cognac, e son vegnù fora sol quando che vee finì de bevermela".
Poi venne il trasferimento sul Carso, dove le armate Austro-Ungariche cercavano di aprire un varco nel poderoso fronte italiano.
"Ho combatuo sul Pasubio, sotto i colpi del ta - pum. Tre volte l’aven conquistà, tre volte l’aven perso da novo. No te conte gnanca cosa che me a tocà veder, parchè te se un tosatel e no sta ben… soldati che urlea, i feriti che ciamea mama, el tenente colpio a morte che el continuea a dir: - all’assalto! -"
Nonno Augusto aveva partecipato in presa diretta ai tremendi assalti della 12ma battaglia dell’Isonzo dal 24 di ottobre al 9 di Novembre del 1917.
Quando era in vena di raccontare, ricordava come se stesse rivivendoli, i drammatici giorni di Caporetto; di come gli alpini si appiattirono nel fango dei camminamenti quando sentirono arrivare le granate caricate a gas, con il fazzoletto premuto sulla faccia, perché non avevano avuto il tempo di indossare le maschere; della distesa di morti che rimase sul terreno poco dopo; del panico generale che colse i reparti sotto l’imponente bombardamento dell’artiglieria austriaca nella conca di Plezzo; dell’ordine di ripiegare; della perdita di Caporetto e della rotta del fronte dell’Isonzo; dei successivi ripiegamenti, prima sul Tagliamento, poi sulla linea del Piave; delle migliaia di disertori, molti dei quali finivano davanti al plotone di esecuzione per aver cercato di salvarsi la pelle.
Poi, lo assaliva la commozione, le parole gli si impastavano tra i denti stretti a morsa, e, biascicando, riprendeva la sua litania: "Ra-Rau-Rauscedo…".
Un giorno chiesi a mio padre cosa significasse la parola che il nonno continuava a ripetere nei momenti di solitudine. Mi spiegò che Rauscedo è una località della Provincia di Pordenone famosa per i vivai di viti.
"Da quelle parti – aggiunse - tuo nonno andava spesso a comprare i nuovi vitigni, da sostituire a quelli malati o da mettere a dimora per nuove piantagioni".
L’esperienza della Grande Guerra lo aveva segnato profondamente, a tal punto che, a distanza di così tanti anni, i ricordi di allora gli affioravano sempre con una nitidezza unica e lo facevano star male.
"L’è tuta na guera, ogni dì, anca adess… No ghe vede pì Pierino. L’è bruta satu a no vederghe. L’è scuro, da matina a sera e me toca star qua sentà su na carega a piànder".
"Son qua mi nono no sta a preocuparte. Te vedarà che i dotori i te guarirà e te tornarà a vederghe".
Tentavo di consolarlo così, con l’ingenuità di chi vuol bene e non si rassegna all’evidenza.
Nonno aveva un’arma sottile ed efficace per difendersi dai colpi della sorte: un’ironia sottile, che usava ogniqualvolta veniva attaccato. Raccontava spesso di quando, sul Carso il Tenente lo mandava sempre in avanscoperta con la cesoia per tagliare i reticolati e aprire varchi fuori dalla trincea, per preparare l’assalto.
"Zanette prendi la tenaglia – era la frase fatidica –".
Una volta rispose per le rime: "Ci vada lei Signor Tenente, invece di mandare sempre gli altri", e scagliò la cesoia dentro all’Isonzo.
"La pagherai, Zanette" lo minacciò il Superiore.
E Zanette, senza scomporsi, di rimando: "Magari arrivassi vivo fino a pagargliela, Superiore!".
Mio nonno sparò gli ultimi colpi sull’altipiano di Asiago, e pianse di dolore sul corpo dell’amico Domenico colpito a morte dal cecchino, mentre la cavalleria italiana entrava vittoriosa in Serravalle – Ceneda che divennero così Vittorio Veneto. Congedato, tornò ai campi, alla stalle e alla Tilde che sposò dopo qualche anno.
Nonno Augusto vive nei miei ricordi, ravvivati dalle foto dell’album di famiglia; quelle foto che ogni tanto mostro ai miei figli raccontando… Egli è un’icona della gente veneta, legata a doppio filo alla terra, alla montagna, agli affetti e alle tradizioni; gente pronta alla lotta, al sacrificio, alla fatica e al distacco.
Raggiunse il Paradiso di Cantore in una triste sera di Marzo, ed entrò nella storia, la storia dal basso, come silenzioso rappresentante di una generazione di eroi che seppero resistere sulla linea del Piave e lo resero SACRO ALLA PATRIA, difendendo l’onore delle italiche genti di fronte all’invasore. Al suo funerale, sulle note di SIGNORE DELLE CIME Augusto ritrovò la sua montagna. Ed io ora lo immagino, mentre cammina su un prato soffice di stelle alpine, cantando, a braccetto con la Tilde.
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