Il canto dell'alba - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il canto dell'alba

Tutte le edizioni > Edizione16
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Premio speciale
"Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

Il canto dell'alba

di Angelo Paloschi - Mestre (VE)



I ventilatori al soffitto rimestavano nell'aria afosa gli odori del cibo e dei cristi sudati che affollavano la mensa. Occorreva andare svelti con i piatti, d'estate restavano in pochi a servire mentre gli ospiti non mancavano mai. Prima si facevano passare quelli con la tessera e poi si lasciavano entrare gli altri, fino a riempire tutti i posti avanzati. Restava sempre fuori qualcuno e allora bisognava portare pazienza, chiudere il cancello allargando le braccia e accettare gli improperi e certe volte gli insulti. Quella sera Mario era rimasto a dare una mano per la sorveglianza all'ingresso, finché le cuoche non avevano aperto la
porta della cucina. Dunque era andato spedito a mettersi il grembiule e i guanti in lattice e aveva incominciato a servire ai tavoli. Era per questo che non l'aveva visto entrare, doveva essere venuto dentro tra gli ultimi.
La quarta fila era la più impegnativa; quella con gli avventori più esigenti e scontrosi.
"Mario fai la quarta" gli aveva detto la caposala distribuendo i compiti, e lui aveva incominciato a portare gli spaghetti dal fondo, dagli africani, i soliti sei giovani tranquilli che svuotavano di gusto le fondine traboccanti e come unica richiesta avevano quella di tutti i musulmani, formaggio al posto dell'affettato per secondo.
"Pochi!". Da sotto i capelli untuosi cascanti sulla fronte butterata, uno sbandato locale rifiutava il piatto troppo carico. Non veniva spesso, per quieto vivere nel tavolo andava servito per primo e più di una volta i volontari all'ingresso l'avevano lasciato fuori per punizione. Accanto a lui, quella sera, era capitata la bionda magra che teneva le lunghe gambe accavallate fuori dal tavolo. Mario le porse il piatto appena respinto chiedendole con lo sguardo se per lei quella porzione andasse bene. La donna annuì col solito garbo, che aggiunto allo chignon e alle labbra rifatte le dava un'aria di nobile decaduta. Servì velocemente anche gli altri, molti dell' est, qualche asiatico, diversi italiani, scorbutici o cordiali ricevevano il cibo con lo stesso umore, estate o inverno l'umore dei poveri era quello. Affrettandosi tra il brusio di voci e forchette, gli occhi schivi di Giancarlo gli erano rimasti nascosti. Controllò la situazione dell'acqua, il tempo di un giro di rabbocco delle caraffe ed era già ora di raccogliere i piatti vuoti del primo. Faceva un gran caldo e a Mario
venne in mente che il mattino dopo sarebbe partito presto per il fine settimana su al maso. Avrebbe finalmente lavorato col fresco.
Lo sbandato ispezionava l'affettato e l'insalata che aveva sotto il naso mentre Mario posava sul tavolo anche gli altri piatti col secondo.
"Perché a me niente salame? Gli altri hanno anche il salame!" Quello non si smentiva mai.
"Sono affettati misti," spiegò Mario con calma, "vengono messi come capita". "Ma io voglio il salame".
La Elide, di lontano, aveva già adocchiato la scena e stava arrivando a grandi passi.
Mario non fece in tempo a replicare, lo anticipò l'uomo seduto di fronte all'attaccabrighe, allungandogli il proprio piatto gli offriva uno scambio.
"Tieni questo, se vuoi, per me fa lo stesso. C'è il salame"
"Cosa succede?" proruppe la Elide con lo sguardo di granito. "Le solite storie? Qui non siamo al ristorante, si mangia quello che viene!". La Elide era una santa donna e come caposala una macchina da guerra. Gli ospiti nei paraggi mangiavano concentrati senza osare intromettersi.
"Niente, niente," fece Mario, "abbiamo già risolto".
Mentre tornava alla cucina per caricarsi di altri piatti, un fremito gli scoteva il petto.
Non poteva sbagliarsi, quello che aveva fatto lo scambio era Giancarlo. Dopo quasi trent'anni, si erano rivisti di recente in Abruzzo durante i soccorsi per il terremoto, là avevano ricordato la naia in Alto Adige, le marce in compagnia dei muli, e si erano raccontati dei figli, dei trambusti della vita adulta, del lavoro. Giancarlo... Pensò che forse avrebbe fatto bene a far finta di niente, doveva continuare a servire come se non si fosse accorto di lui. Stando in coda con gli altri volontari presso la porta della cucina, mandò un'occhiata al tavolo e lo vide mangiare con compostezza. Aveva la dignità silenziosa dei tanti che in quei mesi di crisi venivano a mescolarsi alla miseria, uomini e donne, sguardi lontani dalla normale vita della mensa, sguardi piegati dentro le loro storie. Mario ricevette i nuovi piatti e ripartì muto verso i tavoli, ancora deciso a fingere per rispetto. Sarebbe stato facile finché serviva il resto della fila.
Fu consumato anche il secondo e giunse il momento di rifare il giro per distribuire la frutta. Mentre appoggiava il cestino con le pesche, gli occhi azzurri di Giancarlo si posarono sugli occhi di Mario. Allora a Mario mancò il fiato, trovò appena la forza per accennare un sorriso e per chiedere, banalmente, se fossero tutti a posto.
"Grazie Mario" annuì Giancarlo, che con un'occhiata discreta ma serena stemperò l'imbarazzo dell'amico.
Gli ospiti cominciarono lentamente a sfollare, i volontari si aggiravano solerti per la sala raccogliendo le stoviglie o scambiando una parola con quelli ancora seduti. Qualche ospite perlustrava i tavoli con una borsetta in mano, per riempirla del pane o della frutta avanzati. La Elide controllava che non ci fossero bisticci, cercando di discernere il bisogno dall'ingordigia, e se c'era chi restava deluso guardava in dispensa se fosse possibile integrare. Con una pila di bicchieri in mano, Mario sentì l'impulso di raggiungere Giancarlo mentre si apprestava ad uscire.
"Ciao Giancarlo" lo chiamò senza aver preparato cosa dire.
"Come va, Mario," Giancarlo si voltò e tolse una sigaretta dal taschino della camicia, "ti dai da fare con questo caldo: bravo".
"Mi aspetti un attimo, Giancarlo, che prendiamo un caffè?".
Lo attese nel piccolo giardino che affiancava le vetrate della mensa, Mario lo scorgeva di sottecchi mentre scopava e riordinava le sedie. Poi raggiunsero insieme il bar sulla strada, dove il caffè lubrificò la confidenza. Uscirono dopo essersi dati un appuntamento. Quella sera, a casa, Mario mangiò di malavoglia e usò poche parole.
"Mario, che cos'hai'?".
"Niente, amore, non ti preoccupare".
Preparato lo zaino, si mise a letto con un libro ma mentre scorreva le righe pensava ad altro. Spenta la luce, pose la mano sulla mano di sua moglie, che già dormiva, e ci mise un po' prima prendere sonno. Rese grazie a Dio per i loro due posti di lavoro e per le tante altre fortune che con eccessiva leggerezza dava per scontate. Salì con il pensiero alle montagne, dove riusciva sempre a stare bene, e vagando per i boschi attorno al maso si assopì.  
Pieno di aria e di sole, il maso era adagiato in un catino di pascoli d'alta quota, appena staccato dal bosco e circondato da grandi falde detritiche ed eleganti pendici rocciose. La ristrutturazione che si stava ultimando era l'orgoglio della sezione. Mario e gli altri si affaccendarono tutta la mattina per il fissaggio dei serramenti in legno d'abete e per gli ultimi ritocchi di malta e pietra alle pareti dello stanzone da bivacco.
"Altra cosa lavorare col fresco, eh Mario?". Mario emise uno sbuffo liberatorio quando finalmente la pesante finestra s'accomodò nel foro.
"Dall'inferno al paradiso, bacia" esclamò con soddisfazione dando uno sguardo al panorama e infine sorridendo a Giancarlo, che non s'era tolto il cappello con la penna da quando erano partiti e non lo mollava neanche lavorando. Mario era entrato di buon grado nella parte dell'aiutante, porse i tasselli a Giancarlo il quale si prodigò lesto con l'avvitatore. Un profumo di carne grigliata avvolgeva la costruzione. Il campanaccio suonò l'adunata, gli uomini mollarono gli attrezzi e si fecero intorno alla fontana per rinfrescarsi. Quando tutti furono seduti al grande tavolo davanti al rifugio, ebbri di lavoro e di montagna, Silvano si affacciò alla porta con una grossa pentola, più simile a un orco che a un cuoco.
"Lor signore sono pronte?" recitò il gigantesco alpino, con la penna del cappello, schiaffeggiata dal passaggio sotto la trave.
"Porta qua, porta qua, sorella, che ti facciamo vedere noi!" ribatté uno degli uomini picchiando la mano sul tavolo. Furono riempiti i piatti e fu fatto scorrere il cabernet nei bicchieri. Quando passò con la pentola tra Mario e Giancarlo, Silvano cercò di assumere un contegno che lo rendeva comico.
"La mangi volentieri la pastasciutta?" chiese affettuosamente. Seduta con le gambe che penzolavano sotto il tavolo, la bambina annuì in silenzio, mantenendo gli occhi fissi sul piatto.
"Certo che la mangia, grazie" disse Giancarlo, "magari mezza porzione. Come si dice, Alice?".
La bambina ringraziò con un filo di voce.
"Vieni via da lì, Silvano," intervenne un alpino con tono bonario, "se no la fai scappare!". Sorrise anche la bimba. Mario assisteva alla scena con la forchetta affondata nella pastasciutta e tenendo nascosta una certa apprensione. La compagnia gli pareva più morigerata del solito, certamente per via della bambina. Sentiva la responsabilità di quelle presenze non programmate. Passando alla grigliata e alla polenta, l'allegria dei commensali andò lievitando come sempre, fino a che furono intonati i cori di rito con i bicchieri in alto e le braccia cinte sulle spalle. Le remare di Mario si sciolsero nel canto e nel vino.
Il pomeriggio di lavoro fu benedetto dal cielo terso e dal profumo delle fioriture di giugno. La montagna si specchiava negli occhi alleviando la fatica e gli uomini si diedero da fare fino al tramonto, che pennellò di lunghe ombre i pascoli in quota. Presto dalle pareti ad oriente si sarebbe alzata la luna piena e una luce d'argento avrebbe accompagnato la notte. Fu consumata una cena sobria e sotto le stelle fu acceso il fuoco. Il cerchio di penne nere rimase raccolto a lungo nella sera e quando fu l'ora di coricarsi in mansarda, venne naturale a tutti di muoversi in silenzio per non disturbare la bimba che già dormiva nel letto d'angolo, stanca e felice per quel frammento di vacanza. Giancarlo si avvicinò a Mario e gli parlò sottovoce.
"Mi fermo un po' fuori, se a voi non dispiace".
La notte trascorse veloce e Mario si svegliò che era ancora buio. Dischiuse gli occhi, solo un flebile riflesso cinereo penetrava dalla piccola finestra aperta. Si girò dall' altra parte per riprendere sonno e si accorse che la sagoma del letto di Giancarlo era rimasta intatta. Anche il letto di Alice era vuoto.
Si mise a sedere nella penombra e ancora intorpidito si vestì. Facendo attenzione a non urtare gli altri letti, raggiunse la scala di legno e scese al piano di sotto. Gli sembrava tutto in ordine, le borse, i cellulari, il portafoglio che aveva lasciato sulla credenza. La porta d'uscita era socchiusa, l'aprì. Cercò con lo sguardo nel paesaggio surreale dei declivi ancora irraggiati dalla luna, scesa sull' orizzonte, mentre verso valle si accendeva l'aurora. Intirizzito per la frescura pungente, si strinse nelle spalle e camminò lentamente in direzione di un masso erratico sporgente in direzione del bosco. Giunto ai suoi piedi si fermò.
"Mario!". Giancarlo sedeva con la piccola Alice sulla sommità del macigno. La bambina sembrava un pulcino, teneva le gambe strette tra le braccia e fissava Mario dall'alto con gli occhi semichiusi. "Tra poco vedremo l'alba," disse Giancarlo, "se vuoi restare vai a prendere il maglione e soprattutto il cappello. Fa presto!".
Tornò al maso perplesso e assonnato, salì a prendere gli indumenti producendo una smorfia ad ogni scricchiolio del tavolato e, senza avere svegliato nessuno, dopo qualche minuto fu di nuovo sui prati madidi di rugiada. Si chiedeva cosa stesse facendo. Non era la prima volta che si alzava a vedere l'alba ma adesso qualcosa non lo convinceva. In cuor suo si domandava cosa avesse fatto quella notte Giancarlo, mentre tutti erano immersi nel sonno. Un uomo che cade in miseria può perdere sé stesso, meditava camminando.
"Vieni su, da questa parte". Giancarlo gli mostrò dove arrampicarsi. Mario salì e sedette muto accovacciato con loro, puntando lo sguardo dove sarebbe sorto il sole. Un mondo ancora spento li avvolgeva.
Il primo cinguettio spaccò la notte. Dietro al primo uccello se ne attivarono altri e in breve, dal bosco alle loro spalle, salì un'orchestra fragorosa di canti. La montagna si era svegliata e nell'aurora dispiegava poco a poco le sue forme e i suoi colori. Le pareti verticali si tingevano di rosa sopra i ghiaioni ancora in ombra, i pascoli si stendevano sinuosi come grandi lenzuoli e sul fondovalle, in lontananza, tremolavano le luci di un villaggio prossimo al risveglio. La sagoma scura del maso spiccava nel chiarore d'oriente. Lo schiamazzo degli uccelli riempiva l'atmosfera e il catino dei pascoli avvolti tra i versanti era la cassa di risonanza naturale dell'impetuoso concerto.
"Non è ancora il momento" mormorò Giancarlo con lo sguardo carico d'entusiasmo. Le tre figure immobili si disegnavano contro il cielo chiaro, due uomini con la penna in testa e una bambina. D'un tratto l'aria sembrò vibrare e caricarsi di energia e come per un comando sovrumano, il canto degli uccelli cessò. Scese un silenzio perfetto, senza azione né tempo. Era il canto dell' alba. Una lacrima nascosta lo infrangeva, unico movimento nel cosmo fermo in attesa.
L'assenza di suono durò pochi attimi, finché il primo lembo di Sole sfolgorò dietro il profilo delle creste. Di colpo gli uccelli ripresero a cantare festeggiando l'ascensione del disco luminoso, mentre i riflessi della rugiada imperlavano i colori sfuggiti dall' ombra. Giancarlo si asciugò la guancia e diede un bacio delicato sulla testa di Alice. La bambina sorrise. Poi posò la mano sulla spalla di Mario.
"Grazie" disse con calore all'amico.  
L'auto scivolava lungo l'autostrada lasciandosi alle spalle le ultime pendici prealpine.
Il tramonto infuocava la sera, Mario scorgeva il paesaggio con la coda dell' occhio badando a controllare il volante. Allungò la mano sull'autoradio ma cambiando idea la ritrasse, guardò nello specchietto e inquadrò il visetto reclinato di Alice. La bambina si era assopita appena finite le curve in discesa, mentre suo padre, il cappello con la penna abbassato sulla fronte, aveva preso sonno solo da qualche minuto. S'era sforzato fino all'ultimo di fare compagnia all'amico alla guida e infine aveva ceduto, vinto dalla notte di veglia e dai due giorni d'intenso lavoro su al maso. Ci aveva dato dentro come recuperasse un'astinenza.
Mario lo vide sprofondato a bocca aperta sul sedile di fianco, seguì dolcemente la curva e sorrise. Notava che col tempo la posa non era cambiata, Giancarlo riposava in quel modo anche da recluta, dopo la giornata severa e genuina della caserma. Se lo conosceva un poco non l'avrebbe più visto, almeno non prima che si fosse risistemato. Si era concesso anche troppo per la sua riservatezza e non fosse stato per Alice non avrebbe mai accettato l'invito. La crisi dell'occupazione, rifletté Mario guidando, era una brutta bestia, certe presenze fugaci alle cene della mensa erano mille volte più eloquenti delle statistiche in televisione, che coprivano il volto e la realtà delle storie.
Un profumo di legno fresco si spandeva per l’abitacolo. Il fatto inconcepibile era quello, sul sedile di dietro, accanto ad Alice, era posata una Madonna di legno di una bellezza che lo lasciava interdetto. Con l’accetta della legnaia e un coltello da cucina Giancarlo l’aveva scolpita sotto la luce della luna.
“Papà ha detto che questa è per te! Aveva esclamato Alice accompagnandolo per mano dall’altra parte del maso, presso le rocce affioranti dal prato sopra le quali il ceppo stagliava la sua linea dolcissima nell’alba. Adesso Mario non vedeva l’ora di arrivare, per far saltare di stupore anche sua moglie.
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