Il calore del riscatto - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il calore del riscatto

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2008
Segnalato

Il calore del riscatto

di Giulio Toffoli - Brescia



«Tita. No te doveve! Percè te l’ès fat! Perciè t’ès sut»
Improvvisamente una voce è risuonata nella navata della chiesa gotica di Rocca.
Non mi sono reso conto che era la mia se non quando una mano mi si è posata sulla spalla. Il sacerdote, che aveva interrotto per un attimo la funzione, ha poi ripreso il suo rito. Io mi sono piegato su me stesso. Allora ho vissuto col pensiero, ancora una volta, un’ultima volta, accanto al più caro amico di tutta una vita.
Abbiamo insieme attraversato le tragedie di un secolo, insieme abbiamo trascorso i primi anni come si vivevano in un paesino di montagna, lavorando sodo e aiutando con le proprie piccola forze la famiglia. Il fieno, la cura degli animali, i lavori dei campi. Le mani invece che trastullarsi con i balocchi, come sarebbe stato più naturale per un bambino, avevano fin dall’inizio sviluppato dei piccoli ma resistenti calli; l’uso del restrello, della zappa erano diventati il nostro divertimento. Anzi ci era stata fatta una copia di questi strumenti adeguata alle nostre possibilità di lavoro. Ciò nonostante, formidabile caratteristica di quegli anni, eravamo a nostro modo felici. Spesso negli ultimi anni ci incontravamo e nella stua sul fornel fumando la pipa parlavamo, ricordando quegli anni.
«Te te regorde Tita – dicevo - qand se siva a laurà i ciamp».
«Nane l’eva bel a chi temp là - mi rispondeva - Te te regorde qand t’es ten sut a studià in Agort. Per tant temp no t’es pì tornà a ciesa».
Infatti la mia famiglia aveva avuto la possibilità di farmi fare un corso di studi superiore e in questo modo liberarmi dalla schiavitù ad una tradizione di vita dura, legata ai ritmi della natura. Titta era invece rimasto al paese.
Il caso ci fece rincontrare quando ricevemmo entrambi la cartolina che ci invitava a compiere il servizio militare. Il destino ha voluto che ci si ritrovasse nella stessa caserma. Io avevo fatto il corso ufficiali e lui era alpino semplice. Ci siamo subito abbracciati e abbiamo iniziato a vivere recuperando le antiche abitudini di fraternità.
Ci si aiutava a superare le difficoltà e le noie della vita in caserma, in un’epoca che stava diventando sempre più tristemente difficile. Vivevamo nell’età del «Credere, obbedire, combattere». Io, in una qualche misura, mi ero riconosciuto nel regime, nella sua retorica, nel mito della forza, della gioventù, della «guerra come igiene del mondo», come mi aveva insegnato il mio professore di italiano. Titta era invece ruvido, aveva lo sguardo e l’intelletto semplice e scontroso del montanaro, poco propenso alla retorica, ancorato alla terra e alle esigenze di una famiglia, che soffriva della sua assenza. Io gli parlavo dei «destini imperiali di Roma», lui mi guardava di traverso e imprecava, a bassa voce, contro «i todesc». Qualche volta non lo capivo proprio!
Poi il grande annuncio: «l’ora delle decisioni fatali» scoccata sui colli di Roma. L’entusiasmo era stemperato da una certa apprensione: dove saremmo finiti? Come sarebbe andata finire?
Si sa: è facile capire come iniziano le guerre, difficile è profetare come finiscono. Se l’Italia era «destinata a vincere», come annunciava il Duce, ben diversa era la condizione individuale: avremo noi visto il giorno della vittoria? Per me la risposta era abbastanza secondaria. Ciò che andavo cercando era la gloria. Ben diversa la condizione di Titta che vedeva la realtà da un punto di vista più semplice: come sarebbe sopravvissuta la famiglia senza il suo contributo? Io cercavo di consolarlo parlandogli della «bellezza della guerra», dello «spirito di avventura»!
Così passarono i mesi senza che la nostra vita mutasse granché. Ci preparavamo, marce e addestramento, mentre i nostri amici partivano chi verso la Francia chi verso la Grecia.
Continuavo a dire al mio amico: «Tita, Vinceremo!!!»
Mi rispondeva: «Saràlo ben Nane, ma mi ò paura e la vacia la m’è morta. In famea l’è grama! »
Così i giorni passavano mentre facevamo l’istruzione alle nuove reclute e ogni tanto mi arrivavano, dalle pagine del Corriere della Sera, notizie certo non corrispondenti alle mie attese: sia pure fra le righe, a denti stretti, si capivano bene le difficoltà del nostro esercito.
Altrochè vittorie folgoranti. Il quadro era difficile; certo le armate degli Alleati erano sull’offensiva ma diceva Titta: «L’è i todesc», e mi chiedevo: «Non è che alla fine avrà ragione lui?»
Infine nel 1941 tocca anche a noi partire, la destinazione è quella più inaspettata: la Russia. Mentre dispiego la carta geografica di fronte al mio Titta vedo nei suoi occhi disagio e paura: un paese infinito, lontano, sconosciuto, quasi un continente, gli sfugge dalla bocca e me lo dice stranamente in italiano: «Ma cosa c’entriamo noi con la Russia?» Gli rispondo secondo i paradigmi della propaganda: «No tel sès Tita, i é Bolscevichi. I é nemis de la civiltà occidentale. I é atei. La nòsta l’è na Crociata!» Lo vedo scrollare la testa, secondo un antico modo contadino: «Saràlo, saràlo...», poi riprende la sua corvée.
Inutile soffermarsi sul primo anno in quelle terre, un anno duro, ma che abbiamo superato con facilità; era come se una buona stella ci seguisse. Si avanzava, qualche volta si arretrava, ma la situazione era positiva. Anche Titta sembrava aver perso parte del suo istintivo timore; anzi, lo avevo visto crescere, diventare, se possibile, ancora più duro, forte, responsabile, aggressivo e perfino audace. Aveva ottenuto anche una decorazione: una medaglia tedesca al merito di guerra!
Fu nell’inverno del 1942 che le cose si misero male e noi ce ne rendavamo conto, anche se non era facile comprendere cosa esattamente stesse succedendo su un fronte lungo centinaia e centinaia di chilometri. Eravamo un punto su una carta geografica, una goccia su un lago ghiacciato. In modi diversi io e Titta eravamo coscienti che le cose stavano cambiando, ma quando avvenne il crollo rimenemmo tutti e due come di ghiaccio, incapaci di prendere atto che era finita. Un intero disegno, di cui eravamo pedine più o meno inconsapevoli, era vicino a dissolversi. Ma qui era l’incognita: come avrebbe reagito una massa d’uomini indurita dalla violenza e come avremmo reagito noi?
La ritirata, per noi semplicemente la strada verso casa, fu intessuta di tragedie, che vivemmo, l’uno accanto all’altro, ora dopo ora sul filo della morte. La parola d’ordine era sopravvivere, ma insieme conservare almeno un’oncia di dignità e qui la durezza di Titta si fece improvvisamente vedere in tutta la sua profondità. Quando eravamo senza cibo aveva la capacità di scovare qualche cosa, saddio come, quando ci trovavamo in pericolo aveva come un sesto senso, e sapeva indicare la via giusta, ma soprattutto in quel frangente dimostrò una incredibile, arcana forma di rispetto della giustizia. Era come se avesse trovato, in un momento in cui tutti pensavano a loro stessi, una forza interiore che lo aiutava a difendere i deboli dai sopprusi degli arroganti, come quando vide rubare una mula e reagì rivolgendosi a quel povero cristo che si era impossessato dell’animale spinandogli contro il parabellum. Certo era difficile giudicare, in qualche caso mi mancavano i parametri morali, lui invece li aveva quasi come se fossero naturali. D’altronde perché, mi diceva, il pievano ci aveva ripetuto infinite volte, quando eravamo piccoli: « Non uccidere. Non rubare. Rispettate la cosa d’altri». Per Titta in questo frangente questi principi morali s’erano fatti la sua stella polare che lo guidava sulla via di casa.
Così, minuto dopo minuto, ora dopo ora, si andava dipanando la nostra odissea in quella infinita distesa di neve, fra una marea umana che temendo per la propria esistenza era diventata spesso incontrollabile, braccata da un nemico che la colpiva fulmineamente ai fianchi, alle spalle, dovendo soccombere alla sua superiorità in uomini e mezzi.
Nella zona di Warwaroska mi piegai a terra accanto al cadavere di un ufficiale tedesco, era ancora caldo, aveva la testa sfracellata da un colpo di mitragliatore. In una tasca trovai una carta geografica. La mia mania per la geografia mi portò a fermarmi un attimo, con accanto il Titta, a guardarla; doveva essere abbastanza recente e mostrava, segnate a matita colorata, le varie posizioni delle forze in campo. Il mio amico la guardava con lo sguardo interrogativo di chi, beato lui, non ci capiva nulla. Io invece vedevo chiaramente che eravamo circondati. Le speranze di uscire dalla sacca era davvero limitate. Lasciai da un lato nella neve la carta pensando fra me e me: «Nonostante tutto bisogna andare avanti!»
Due giorni dopo, mentre la colonna continuava la sua dolente marcia verso Occidente, ci trovavamo in una posizione laterale, in quelle frange che erano più esposte agli attacchi dei partigiani, ma che avevano il privilegio di poter trovare con maggiore facilità un ricovero libero per la notte o qualche cosa da mettere sotto i denti nelle isbe rimaste non toccate dalla furia animale dei soldati italiani, tedeschi, ungheresi. Ci trovammo allora di fronte a un piccolo gruppo di case che sembravano abbandonate, ma sapevamo bene che dentro c’erano invariabilmente alcune donne e forse qualche bambino che restavano, incredibilmente, abbarbicati ai loro poveri beni. Per il nostro gruppetto, una decina di uomini che mi avevano seguito, era una inaspettata boccata di ossigeno. Potevamo riposarci, almeno per una notte, al sicuro e al caldo, forse potevamo perfino trovare qualche cosa da mangiare, salvato da precedenti razzie. Ci dividemmo in due gruppi ed entrammo in due isbe vicine: erano intatte.
Nel buio che caratterizza quelle piccole abitazioni intravvidi alcune donne di diversa età. I loro volti erano alterati dalla paura, solo la più vecchia sembrava, dall’alto della sua esperienza, non reagire. I muscoli erano rigidi come quelli di una maschera: odio, pietà?
Come dirlo?
Certo, pensandoci poi, con la saggezza del tempo che è passato, quasi mi viene da ridere: cosa poteva pensare, lei che doveva averne passate tante, vedendo un gruppo di cinque straccioni, armati alla buona, affamati, veri e propri questuanti, altro che feroci guerrieri!
Ci siamo seduti dopo aver detto due o tre volte: «Italianski! Italianski! Italianski!»
Poi abbiamo iniziato a liberarci delle armi, o almeno di quello che era rimasto e degli abiti. Solo Titta aveva continuato, pur bestemmiando come un carrettiere, a portarsi dietro l’arma di ordinanza ed anzi l’aveva sostituita con una pistola tedesca Luger e un mitragliatore russo. Insomma, lui poteva davvero fare paura, ma fra poveri contadini ci si capisce subito, fu infatti il primo a dialogare, come faceva lui, più a segni che a parole, con quelle donne. Avevamo tutti dei crescenti problemi di movimento, le scarpe d’ordinanza erano defunte da tempo e le avevamo sostituite con tutti gli espedienti possibili: coperte, stracci legati con fil di ferro, scarpe con la suola di legno e per i privilegiati i famosi valenki. Ma avevamo bisogni di riposare i piedi, di verificare lo stato delle falangi, insomma in una parola di lubrificarli un poco. Ci aspettavano ancora, se il destino non ci avesse bloccati, chilometri e chilometri. Le falangi erano virate al viola, in qualche caso erano pericolosamente nerastre. Si trattava di massaggiarle il più possibile e di fare riprendere la circolazione. In più eravamo dei campi di pidocchi e una spulciatina non era necessaria, era improrogabile. Infine avevamo fame. Solo un ponte di solidarietà ci avrebbe consentito di trasformare quel camino che troneggiava al centro dell’isba in qualche cosa di diverso di un paravento che nascondeva le nostre ospiti.
Il clima stava migliorando, le donne si stavano avvicinando a noi quando ecco entrare dalla porta dell’isba un SS. Incredibilmente in tutto quel disastro aveva conservato intatto il suo aspetto lugubre, la divisa era ancora perfetta, l’arma pronta senza la sicura, il gesto autoritario da superuomo. Tutti avemmo la stessa reazione e pensammo: «Che differenza fra loro e noi! Loro sì che fanno la guerra!»
Il tedesco si sedette da un lato e chiese imperiosamente che gli venisse dato del cibo, costrinse una delle donne ad aiutarlo a togliersi gli stivali e intanto ci guardava con palese disprezzo: «Italienisch? Ah, Italienisch!»
Improvvisamente fra le gambe di una donna apparve un bambino di quattro o cinque anni. Doveva essere addormentato quando noi eravamo entrati. D’altronde ci eravamo mossi in punta di piedi e non aveva avuto la possibilità di destarsi.
Il tedesco invece lo spaventò e iniziò a urlare, a gridare con insistenza, come fanno i piccoli quando sentono il pericolo. In effetti l’uomo delle SS, abituato a comandare esseri ridotti a schiavi nelle sue mani, mostrò in pochi attimi segni di crescente irritazione e infine, estratta dalla fondina una pistola d’ordinanza, sparò un solo e preciso colpo.
Restammo tutti come di ghiaccio di fronte al rimbombo del colpo e all’urlo di una delle donne.
Solo Titta non si scompose. Io non lo avevo notato, ma quando era entrato il tedesco aveva posto mano al suo fucile mitragliatore. In un silenzio irreale lo sentii dire una sola rapida frase «L’è l’solit todesc» e fare un gesto con la mano alle donne di scostarsi un poco. Il nostro alleato barcollò, travolto da una breve raffica, e cadde pesantemente a terra. La divisa non era più così perfetta, né l’espressione altezzosa.
Ci rassettammo in silenzio e uscimmo il più rapidamente possibile da quella casa. «Ben Tita – dissi – giustisia l’è fada. Son!»
Siamo riusciti a tornare a casa.
Per decenni, ricordando quel fatto, nella tranquillità delle ore dopo il lavoro, al caldo della stua, il nostro focolare locale che tanto richiamava il focolare al centro dell’isba, gli domandavo: «Ma te pense che l’è sta giust fei el giudice?» Invariabilmente mi rispondeva: «Ma chi àuter? La guera l’è na burta cosa ma chel là non l’eva en solda, l’eva en criminal. El l’à merità!»
Ora ci salutiamo per l’ultima volta.
Spero che tu possa trovare quel degno posto che meriti, in quello che eravamo soliti chiamare «il paradiso di Cantore».
«Te salude Tita, ma speteme co rue, tra en cin, se fon ancora compagnia».
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