Cansiglio Mon Amour - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Cansiglio Mon Amour

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVI EDIZIONE - Arcade, 13 Giugno 2021
Segnalato

Cansiglio Mon Amour

di Danila Barel – Cappella Maggiore (TV)



Era un agosto piuttosto anomalo e insolito, e non certo per ragioni meteorologiche! La consueta euforia del mese vacanziero per antonomasia sembrava avere il freno a mano tirato e gli spaesati viaggiatori, dopo essersi cullati per mesi in confortanti illusioni, si erano dovuti arrendere di fronte all'amara realtà. E tutto per colpa di un infido virus che aveva, in troppi casi, ucciso, e stravolto la vita degli abitanti del mondo.
Anche Cesare dovette adattarsi agli eventi rinunciando al tanto atteso appuntamento con la Grande Mela.
Quarantacinque anni, bancario, residente a Mestre, divorziato, con un figlio quindicenne, era tra i privilegiati a non essersi ritrovato cassaintegrato o, peggio ancora, disoccupato, a causa della pandemia. Certo, il lavoro era molto cambiato, ma lui ne era entusiasta: il lavoro da casa aveva finalmente messo fine alla convivenza forzata con colleghi pettegoli e impiccioni, pronti a pugnalare alle spalle per proprio tornaconto. Ora che gli era stata prospettata la possibilità di adottare quella modalità lavorativa anche per il futuro, non ci pensò due volte e accettò ben volentieri, perché in mente aveva un progetto che avrebbe dato una svolta significativa alla sua esistenza. Nessun legame affettivo, e ora nemmeno professionale, lo tratteneva più a Mestre.
Cesare era amante della montagna ed era proprio lì che voleva andare. Il Cansiglio era sempre stato il suo rifugio, la sua oasi dove rigenerarsi nelle soffocanti domeniche estive. Aveva fantasticato tante volte di poter vivere in quel paradiso, pur consapevole che si trattava di una strada impraticabile per ovvie ragioni di convenienza. Adesso però le circostanze erano variate.
Tutti lo ritennero un folle, a cominciare dalla ex moglie, che tentò inutilmente di farlo ragionare: «Ti ricordo che, appena ventenne, sei scappato da Venezia perché era la città delle scomodità, bella solo per i turisti. E adesso vorresti ritirarti a fare l'eremita in Cansiglio?! Ma pensi che lì avrai tutte le comodità alle quali sei abituato? Hai quarantacinque anni e dovresti essere un uomo maturo ormai!»
«Ti ho parlato solo per informati, non certo per avere il tuo parere! E poi basta con la solita manfrina dell’uomo maturo», ribatté seccato Cesare.
Il figlio si mostrò più comprensivo; essendo grande appassionato di trekking e mountain bike, già si immaginava quante esplorazioni avrebbe potuto fare in Cansiglio nei fine settimana.
Cesare dedicò le ferie di agosto per sbrigare tutte le pratiche burocratiche e stabilirsi nella nuova dimora. La casa l’aveva adocchiata già qualche tempo prima: quel cartello “Vendesi” fu da subito un richiamo ammaliatore, un segno del destino. Si trattava di un casone cimbro, il più bello di tutta Vallorch, la valle profonda che fu terra dei cimbri fin dal 1800. La trattativa si concluse molto velocemente; il prezzo era onesto, i vincoli accettabili e, quel che più contava, la casa, seppur disabitata, si presentava in ottime condizioni. La tipica struttura in legno, poggiata su un rialzo in pietra, era protetta da un tetto spiovente coperto di scandole di abete e l'intenso verde smeraldo della staccionata e degli scuri le conferiva un aspetto fiabesco.
In pochi giorni Cesare riuscì a sistemarsi; era emozionato ed eccitato come un bambino nel paese dei balocchi. Lassù si respirava libertà e lui, piccolo uomo in una grande foresta, non si sentiva oppresso da confini, né fisici né mentali. Erano saltati tutti gli schemi e le convenzioni, e quella non fu una perdita, bensì una grande conquista.
Fece conoscenza con alcuni villeggianti che occupavano una baita nelle vicinanze, i quali non nascosero il loro stupore quando seppero che avrebbe abitato lì tutto l'anno. Ma almeno loro non lo presero per matto, o meglio, seppero essere diplomatici e gli dissero solamente che aveva fatto una scelta coraggiosa: sarebbe stato l'unico abitante stabile nella valle, e non era cosa da tutti!
Le giornate erano incredibilmente lunghe, con opportunità inedite offerte dalla nuova quotidianità. Una volta esaurite le ore di lavoro davanti al computer, il tempo che rimaneva a disposizione era enorme; Cesare non si era mai reso conto di quante cose si potevano fare in ventiquattr’ore. Il ritrovato tempo libero, prima molto limitato perché occupato da distrazioni sterili, gli fece recuperare passioni sopite, prima tra tutte la pittura, timido amore di gioventù. Avrebbe infatti voluto frequentare il liceo artistico, ma i genitori, con la forte motivazione che d’arte non si campa, seppero dissuaderlo. Sfogava la creatività repressa lanciando i colori sulla tela e lasciando che il caso, molto più talentuoso di lui, completasse l'opera; e così un tocco di estrosa contemporaneità arricchì sia la camera che la cucina. A proposito di cucina, quella fu un’altra sorprendente scoperta. Abbandonate le monoporzioni precotte acquistate al supermercato, Cesare iniziò a cimentarsi ai fornelli apprezzando via via sempre più il piacere di cucinare e mangiare, un piacere sia per il palato che per la salute. Si recava nelle malghe a comprare prodotti freschi e genuini, si faceva consigliare qualche ricetta che poi replicava, con risultati lodevoli per un principiante.
Insomma, il primo mese fu un idillio. Cesare era semplicemente sereno e felice, in pace con sé stesso e con il mondo. Persino quando si recava a Mestre e rivedeva conoscenti e colleghi, non si infastidiva minimamente per atteggiamenti o discorsi che fino a poco tempo prima gli avrebbero fatto venire la gastrite dalla rabbia.
Settembre era ormai agli sgoccioli, le giornate si stavano accorciando e la frescura estiva stava lasciando il posto ai primi freddi, alla coperta di lana e alla stufa accesa. Una bella mattina, di ritorno dalla corsa quotidiana, Cesare scorse una nonnetta dai capelli color argento seduta su un muricciolo lungo la strada. «Buongiorno!», le disse quando le passò davanti. «Guuten takh!», gli rispose lei con sorriso soave. A Cesare venne spontaneo fermarsi, così per gentilezza, per scambiare due parole, ma mentre lo faceva si chiedeva come avrebbero fatto a capirsi. «Stamattina l’aria taglia il viso!», esclamò la donna, togliendo Cesare dall’imbarazzo. Seguì una gradevole conversazione, durante la quale i due sconosciuti si svelarono l’un l’altra con affettuosa sincerità. Rosa, così si chiamava la donna, era una cimbra doc, una degli ultimi discendenti, una che conosceva e che ancora parlava il cimbro, un'originale parlata tedesca, come si poteva intuire dal quel "guuten takh" ovvero "buongiorno" pronunciato poco prima. Aveva sempre vissuto nel villaggio dei cimbri di Vallorch e solo da pochi anni, visto l’avanzare dell’età, si era traferita in un paese del bellunese, ma il cuore era rimasto legato indissolubilmente a quel luogo magico; così, quando poteva, si faceva accompagnare lì e vi restava anche per ore, in compagnia dei suoi tanti ricordi, contemplando quella natura straordinaria che ancora la stupiva ed emozionava. Era una donna divertente e intelligente, forte di una saggezza d’altri tempi, schietta e diretta, testimone di una cultura antica eppure tanto attuale e moderna.
Cesare le parlò della sua emigrazione da Mestre al Cansiglio e Rosa gli fece una breve ma esaustiva lezione: «Vivere qui non è facile, a volte può essere addirittura pericoloso. L’inverno è lungo e rigido, e le insidie non sempre sono prevedibili. Bisogna essere forti, non solo di fisico, ma anche di spirito. Mi ricordo ancora quella notte di dicembre quando partorii la mia terza figlia. C'era una bufera di neve e la strada era bloccata. Era una notte da lupi, e quando dico lupi, intendo proprio quelle bestie affamate che dal bosco si avvicinavano alle case in cerca di cibo. Io ero sola in casa con due bambini piccoli. Non avevo tante alternative, dovevo arrangiarmi e basta. E tutto andò bene, grazie anche alla Madonna che sono certa abbia messo lo zampino affinché la mia Benedetta venisse alla luce senza complicazioni. Beh, che nottata! Mi sembra ancora di sentire l'ululato dei lupi in sottofondo, che, le sembrerà strano, ma alle mie orecchie è stato una dolce melodia. Ecco, anche questa è la montagna! Ti mette sempre alla prova, ma se la conosci la ami.» Cesare rimase affascinato, per non dire commosso, da quella narrazione così forte e al tempo stesso poetica. Nel frattempo era sopraggiunto il figlio di Rosa, che era venuto a prenderla; Cesare dovette quindi congedarsi dalla sua nuova amica: «Rosa, è stato un piacere conoscerla. Speriamo di vederci ancora», le disse. «Bar ségan-sich, viil galükke!», le rispose lei sorridendo, e mentre si allontanava aggiunse: «Stia tranquillo, non le ho detto una parolaccia... solo "arrivederci e buona fortuna"!»
Cesare, mentre si avviava verso casa, si ripromise di ricercare notizie e informazioni su questi cimbri, che ovviamente conosceva, ma solo di nome, come fossero un'entità astratta. In realtà cosa sapeva di loro? Praticamente nulla! Anche lui, vittima della globalizzazione, non si era mai interessato alle minoranze. Quell’incontro però fu come una rivelazione che gli aprì un mondo nel quale intendeva addentrarsi.
Rientrato a casa, si fece una doccia, e parti per il suo consueto giro del venerdì: rifornimento alimentare alla malga e sosta al bar della piana per l’immancabile colazione: un’abbondante porzione di torta di ricotta accompagnata da un bel bicchiere di succo di mirtillo. Un autentico toccasana! Se poi a servire il tutto c’era Teresa, donna squisita come le sue torte, allora il gusto era garantito. Mentre Cesare stava pagando il festino, Teresa gli domandò: «L’hanno trovato poi il disperso?» «Quale disperso?», ribatté lui, cadendo dal mondo delle nuvole. «Come? Non sai niente? Stanno cercando un uomo che ieri si è perso andando a funghi proprio dalle tue parti. Dicono che avesse preso la strada del Taffarel.»
Certo che i bar, siano essi di città, di pianura o di montagna, sono tutti efficaci divulgatori di notizie, battuti forse solo dai parrucchieri! Cesare salutò Teresa e di gran fretta ritornò a casa, spinto da una curiosità che non gli apparteneva, disinteressato com’era ai fatti altrui. Si cambiò velocemente e si precipitò nella zona indicata da Teresa. Lì trovò un uomo del soccorso alpino che gli confermò l’accaduto: «Ha lasciato la macchina al parcheggio della casa forestale e crediamo possa aver preso la strada del Taffarel ed essersi poi spinto nel bosco. La moglie dice che è la prima volta che veniva a funghi in Cansiglio. Questo è proprio un periodaccio: tra funghisti improvvisati ed escursionisti incauti, abbiamo il nostro bel da fare! Ma io mi dico: hai settant’anni, è la prima volta che vieni a funghi in Cansiglio… almeno vienici insieme a qualcuno! Non le pare?» Il ragionamento non faceva una piega e Cesare non poté che essere d’accordo. Da bravo cittadino dotato di un forte senso civico, decise di dare il suo contributo, avventurandosi in un’autonoma ricerca del disperso. Del resto quel sentiero l’aveva percorso più volte e si sentiva piuttosto sicuro. Così, senza perdere tempo si incamminò; dopo circa un chilometro deviò per una strada sterrata e si inoltrò nella faggeta già colorata di giallo e rosso nonostante l’autunno non fosse ancora iniziato. Camminò per quasi due ore e la stanchezza cominciava a farsi sentire. Allora si fermò e mise in pratica quanto imparato a un corso di silvoterapia: si sedette accanto a un albero, appoggiò la schiena al suo tronco, chiuse gli occhi e iniziò a respirare lentamente e profondamente. Quella sosta fu provvidenziale; il silenzio assoluto amplificò anche i rumori più deboli e lontani. Ebbe la netta sensazione di aver udito una specie di gorgoglio; forse era il verso di un animale o magari una voce rotta. Cesare si alzò di scatto e iniziò a urlare: «Ehi, c’è qualcuno laggiù? Mi sente?» Iniziò a correre insistendo a gridare e finalmente scorse in lontananza una strana macchia azzurra. Col cuore in gola si fiondò su quella massa non ben identificata. Era proprio un uomo, tutto rannicchiato e tremante. Era vivo e questo era quello che contava. Si inginocchiò al suo fianco e cercò di tranquillizzarlo. Gli chiese come stava, ma dalla sua bocca uscivano solo suoni incomprensibili; evidentemente la posizione non agevolava la parola e dopo una notte all'addiaccio la voce se n'era andata via. Tentò di muoverlo per metterlo in una posizione più comoda ma aveva una caviglia molto gonfia e dolorante, sicuramente fratturata; ogni manovra di spostamento era quindi molto critica. Era meglio avvisare subito il soccorso alpino e farsi venire a prendere; peccato però che il segnale telefonico fosse completamente assente, cosa del tutto normale in certe zone. Non restava che tornare indietro e chiedere aiuto. Tornare indietro? Facile a dirsi! Cesare si sentì rabbrividire, perché non era affatto sicuro di ricordare la strada del ritorno. Tutto intorno solo alberi e poi ancora alberi, senza nessun punto di riferimento. Si rese conto di essere stato davvero stupido e imprudente e dovette rassegnarsi all'unica scelta possibile: restare lì, passare la notte e attendere i soccorsi il giorno seguente. Cercò innanzitutto di confortare il pover'uomo; gli massaggiò le braccia e la schiena per riscaldarlo e gli fece bere il succo che aveva nella borraccia. Rassicurato dalla presenza di Cesare, l'uomo pian piano si riprese e iniziò anche a parlare. Disse di chiamarsi Lino e aggiunse: «La prossima volta, i funghi li vado a prendere dal fruttivendolo!» L'ironia è sempre una buona terapia e anche in questo caso servì a rincuorare Cesare che, per l'angoscia, nel giro di qualche ora aveva perso dieci anni di vita.
Quella notte fu incredibile e indimenticabile. La montagna, ospitale ma severa, stava mettendo alla prova quei due uomini che, in modi diversi, erano entrati in casa d'altri con troppa spavalderia e presunzione. Cesare ripensò alla nottata da lupi di Rosa e si sentì piccolo al suo confronto. Ma era altrettanto determinato e desideroso di riscatto. Non si sarebbe fatto intimorire nemmeno dall'orso bruno. Era conscio che l'impresa sarebbe stata impegnativa, ma lungi da lui essere codardo. Avrebbe affrontato la situazione con fisico e spirito forti, proprio come la sua amica Rosa, per imparare a conoscere la montagna e amarla, nella buona e nella cattiva sorte.
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