Binoccoli che luccicano - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Binoccoli che luccicano

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Segnalato

Binocoli che luccicano

di Davide Ficagna - Carano (NO)



Là, sul fianco del monte da cui sorge il sole, i binocoli luccicano.
Scrivo una lettera per ingannare il tempo. So che non te la consegneranno mai: niente più esce da questo accampamento e niente ci raggiunge dal mondo esterno.
Nel nostro piccolo mondo isolato non esiste altro che questa pioggia che si insinua sotto la cerata mal rattoppata. Sai, non ci ho mai saputo troppo fare con il cucito.
Della mia vita di prima ho solo ricordi sbiaditi di giorni passati a sognare una bicicletta e a meravigliarmi del passaggio del treno appoggiato alla sbarra biancorossa. E i tuoi capelli profumati.
Tutto qui. Dopo c’è tanto nero, tanta confusione.
Troviamo conforto in gesti automatici ed abituali, piccole manie ossessive che ci danno una parvenza di normalità, di qualcosa che continua nonostante tutto.
Sistemo a modo mio gli scarponi ai piedi del letto così che, per qualche fugace secondo, al risveglio, mi riesca d’ingannarmi e pensare di stare uscendo dalle mie lenzuola, dal mio letto di sacco e che a svegliarmi non sia lo sguaiato suono di una tromba ma la voce di mamma.
A noi restano sentimenti ovattati e nebbiosi: nessuno discute o si accanisce più su un argomento specifico, niente ci scuote e risveglia come un colpo di mortaio e, ormai, sappiamo tutto gli uni degl’altri.
Non sono venuto qui per un ideale, so che se lo avessi fatto, ora non ne avrei smarrito i contorni.
So solo che là, sul fianco del monte, i binocoli luccicano.
Rimandano le ultime luci rossastre e sanguinaccio del tramonto quando il sole muore dietro di noi, tradendo la presenza del nemico.
Loro ci guardano. Continuamente.
Forse perché ci odiano, forse perché hanno dimenticato per quale motivo combattono e cercano di scoprirlo osservandoci, forse perché anche noi li guardiamo con gli stessi binocoli e, maldestri, ci mostriamo a causa delle nostre sigarette accese che uccidono noi e la noia.
Là, sul fianco del monte, c’è il nemico.
Non so che faccia abbia e, credo, non vorrò mai saperlo.
Penso di essermi abituato alla posizione da trincea: i dolori alla schiena si fanno sempre più sopportabili e non mi si addormenta più la mano con cui dovrei premere il grilletto.
Questo turno di guardia però, lo mal digerisco.
Quel luccichio sornione mi tiene in continua tensione, mi spinge controvoglia a pensare al nemico, a chi si nasconde dietro quegli occhi di vetro.
Non voglio.
Quando monto di guardia voglio bearmi dei miei pensieri innocui ed innocenti.
Voglio che mi scorrazzi per la testa la gatta di mia nonna che mi graffiava quando le facevo dispetti terribili, che mi ritorni alla moviola per un numero infinito di volte quella palla che ho buttato in rete al campionato degli esordienti, che possa vedere nude tutte le donne che desideri in quel momento.
Il continuo luccicare di rimando però mi distrae. Mi fa perdere il filo dei miei pensieri inconcludenti, mi riporta alla realtà e insiste sul fatto che io sono lì per loro, perché continui a fissarli in attesa di chissà quale evento.
E poi ci ricasco e me lo chiedo.
Il nemico che mi guarda avrà figli? Una fidanzata che gli resta fedele nonostante tutto o che in questo momento potrebbe essere sotto le lenzuola del suo migliore amico? Sempre che il suo migliore amico non lo abbia visto cadere sotto i colpi di uno di noi.
Penserà le stesse cose di me?
Non devo farmi domande, il capitano lo dice sempre e il caporale maggiore lo ripete come un pappagallo.
Lui è là e mi guarda. Che interesse potrà mai avere se non quello di riempirmi di piombo?
Potrà mai desiderare qualcos’altro che non sia il vedere cadere le nostre bandiere e le nostre penne nere?
Era là quando il bianco dell’inverno appesantiva le fronde d’aghi scuri e rendeva soffice il profilo del monte.
Era là quando il sole arroventava gli elmetti e tutto l’intorno sembrava evaporare nell’aria umida e afosa.
Ma continuo a sbagliare, mi dico che se ho potuto vederlo nella bella e nella brutta stagione, è perché c’ero. Perché stavo dall’altra parte del fronte a fare il suo stesso, incosciente mestiere.
Magari è uguale a me. Per quanto ne so, tutta la compagine nemica potrebbe essere una nostra immagine riflessa, il che renderebbe noi degli stupidi e cocciuti Don Chisciotte delle Alpi.
E se ci fosse davvero un immenso specchio a qualche centinaio di metri dalla nostra postazione?
Se stessimo davvero facendo il palo ai nostri doppioni?
Uomini da una parte e dall’altra; non uomini e bestie come dice qualcuno.
I miei commilitoni ridono di quest’idea ma so che, nei loro incubi, quest’eventualità si è presentata più di una volta.
Tra un ragionamento e l’altro, mi si insinuano nella testa delle immagini lampo, come delle foto con tinte di seppia e contorni a brandelli.
Cose a cui non avevo mai dato importanza e che non so se rivedrò: l’albero di ciliegie del Vittorino che ho saccheggiato per anni, nonno Carlo che passeggia per la sua vigna e mi sorride quasi senza denti, la bandiera dell’Italia che ho infilato sul balcone quando abbiamo vinto i mondiali del ’38, la prima ragazza che ho intravisto senza reggipetto.
Quando scrivo, “lui” non guarda. Mostra un rispetto ammirevole per l’intimità del mio inchiostro che amoreggia con questa carta da lettere ruvida ed ingiallita e per la mia fame di sogni.
Solo qualche occhiatina fugace, tanto per controllare se ho finito.
Io faccio lo stesso. Non saprei dire come, ma intuisco quando anche “lui” ha necessità di appartarsi coi suoi ricordi, con le sue fantasie, con le sue lacrime involontarie decisamente poco marziali ed eroiche.
Non ci concediamo molto più di questo: armistizi e pace non sono affari di nostra competenza.
Continuiamo a cercare di scorgerci dalla distanza senza mai riuscire ad individuarci.
Non voglio sapere dove si trova esattamente, non voglio guardargli il volto, spero di non dovergli mai sparare e spero che anche lui pensi la stessa cosa.
Forse è una forma di rispetto che va oltre la guerra, forse è la paura di non sapere esattamente se stiamo dalla parte giusta.
Credo che la nostra strana convivenza a distanza si possa applicare ad una vita normale, alla quotidianità: basterebbe non fidarsi di chi ci indica un nemico e non ci dice perché, basterebbe fidarsi di più del proprio intuito e cercare il dialogo.
Purtroppo, come ho già detto, queste non sono le nostre mansioni. Almeno qui.
Ora il mio turno di scrittura è finito. Le occhiate si fanno più frequenti. Sono già diversi minuti che non vede il mio luccichio di riflesso, forse è addirittura preoccupato per me.
La nostra tacita e striminzita tregua si riduce a questo.
Vorrei fare un sonnellino adesso, così come dorme il mio compagno, vorrei godermi questa fresca brezza primaverile che ha allontanato il temporale e portato un po’ d’azzurro e panna in cielo.
Ma non posso. Siamo in trincea, sotto un tricolore sbiadito da pioggia e sole.
E là, sul fianco del monte da cui spunta il sole, i binocoli luccicano.

La luce dell’alba arriva alle spalle e quella del tramonto taglia l’orizzonte tingendo di colori vivi e accesi tutto il panorama della valle.
Passano le stagioni su entrambi i versanti.
Vento gelido e pioggia battente, cieli tersi e notti stellate.
Tutto cambia e si sposta, pur se di poco, mutando il paesaggio, dando luogo a migrazioni e nuove fioriture.
Solo il corpo abbandonato di un soldato resta fisso nella posizione di difesa con lo sguardo rivolto dritto davanti a sè.
La divisa ormai a brandelli e l’elmetto spazzato via dalla furia del vento in uno dei tanti temporali che hanno imperversato sul fianco di quel monte che è diventato, per forza di cose, il suo passato ed il suo futuro.
Il soldato nasconde dentro la giacca una matita spezzata, pochi fogli di carta stropicciata e una mignon di cognac. Ha la mano sinistra chiusa in uno spasmo innaturale all’altezza del ventre e tiene con la destra, con presa dura e gelida, un binocolo vecchio e stanco del suo lavoro.
I nemici lo guardano e tradiscono la loro presenza quando le primi luci del giorno giocano col riflesso delle loro occhiate di vetro.
Passano le stagioni su entrambi i versanti e cambiano, inesorabili, i piccoli particolari che compongono il paesaggio intorno a quella maledetta trincea.
Solo il corpo abbandonato di un soldato resta fisso nella sua postazione, così come lo ha colto la morte.
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